La notte dell’antimafia come una storia di inganni
Società | 26 marzo 2024
Un libro che i lettori farebbero bene a non leggere. “La notte dell’antimafia” è il romanzo edito da Compagnia editoriale Aliberti (pag. 272, euro 18,90), prefazione di Enrico Bellavia, direttore del settimanale “L’Espresso”. L’autore è il giornalista Lucio Luca, una carriera a tutto tondo all’interno della redazione di Repubblica, dagli esordi come cronista di giudiziaria nella Palermo delle guerre di mafia alla lunga permanenza nella redazione degli esteri, fino all’attuale approdo nelle pagine culturali del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Questo suo nuovo libro muove da una vicenda tanto inverosimile quanto tragicamente vera. Gran parte dei dialoghi sono tratti dalle intercettazioni di una indagine condotta dalla Guardia di Finanza a Palermo.
La lettura di questo libro si traduce in uno stato di ansia crescente. Gli accadimenti, i personaggi, i dialoghi sortiscono lo stesso effetto spiazzante della grande letteratura processuale. Quella dove i protagonisti si ritrovano dietro le sbarre di una prigione senza avere il tempo di realizzare quanto accaduto. Si avvicendano accadimenti ai limiti del surreale. Il libro è attraversato da una tensione continua, un morso allo stomaco che assale il lettore dall’inizio alla fine. I personaggi animano una Sicilia dell’ingannamento. Una messa in scena grottesca animata da gente di legge. Una rappresentazione di italica furbizia sospesa tra i trucchi di negromanti cagliostri e le goffaggini dozzinali di Giufà siciliani. La considerazione finale che ci consegna questa storia è contenuta all’interno di una spaventevole sentenza di un tribunale della Repubblica. Il verdetto dei giudici sancisce, purtroppo, che i fatti narrati sono tragicamente veri.
L’autore ha scelto come attacco del libro un artificio narrativo. Il preludio è una descrizione magica dell’isola di Alicudi. Una scelta stilistica che illude, inizialmente, il lettore di trovarsi al cospetto di una storia siciliana avvolgente, tonda, materna, quelle che affollano i fotogrammi dei sequel televisivi. Pagine iniziali che fanno planare il lettore sull’isola ventosa del diavolo, lo scoglio più disgraziato dell’arcipelago, quello dal quale spiccavano il volo le streghe. Il tempo di accucciarsi sul divano, pregustando una sciarada di magarìe e l’autore sceglie di catapultare il lettore sulla cima di un altipiano della Grande Isola, quello del parco delle Madonie. Come in una sorta di controcampo cinematografico. Il capitolo successivo si snoda all’interno di un resort di Castelbuono che fronteggia le isole dolci del Dio. Lo scenario iniziale, quello dell’isola di Alicudi, si ritrova dunque in controluce. Solo alla fine, emerge la chiarezza di questa scelta. La storia di allucinazione di massa, quella del racconto iniziale della piccola isola delle Eolie, è metafora dello stato alterato, manipolatorio, che permea l’intera vicenda processuale sulla quale si articola il romanzo. Smarrito dunque l’incantamento iniziale, ecco dispiegarsi, nelle pagine successive, una vicenda di spietata violenza. Un carosello diabolico popolato di sequestri giudiziari, fallimenti aziendali, prevaricazioni ribalde, carte, scartoffie, corridoi di tribunali lastricati di freddo marmo, avvocati voraci e spregiudicati, rinvii eterni di sentenze, angosce degli inquisiti, processi sommari, campagne di delegittimazione. Un rosario maledetto che, negli anni, si tradurrà in Sicilia nella perdita di quasi 100 mila posti di lavoro e nel fallimento della quasi totalità delle aziende poste sotto sequestro giudiziario dal giudice protagonista della storia.
Troneggia sulla scena, invadendo totalmente la ribalta, una sorta di icona, una “madonna” tanto temuta quanto sacrilega, giudice di una Sezione misure cautelari del Tribunale di Palermo. Un magistrato dal curriculum inappuntabile. Un giudice antimafia che incuteva timore come nella Palermo dell’Inquisizione, quella dei roghi a piazza Marina. Una donna che, all’inizio della sua carriera, aveva fronteggiato in aula con coraggiosa asprezza Totò Riina, prima di comminargli una sfilza di ergastoli. La stessa funzionaria che, nel corso delle intercettazioni telefoniche, continua a vessare con la stessa asprezza la sua scorta, costringendo i poveri poliziotti ad aggirarsi in città alla ricerca di frutta esotica e delizie gourmet per i suoi infiniti banchetti. Disponeva della sua scorta come la servitù di una sovrana di un regno da favola. Assumeva famigli e famigliari, come un satrapo mediorientale. Tutto questo, sulla pelle di vittime che, dopo anni, risulteranno essere innocenti e vittime di travisamenti inenarrabili. Giusto il tempo però di condurre le loro aziende, quelle poste sotto sequestro giudiziario, verso la fine ingloriosa del fallimento. Vittime kafkiane che si ritrovano all’alba, privati di ogni sostentamento, sbattuti sulle prime pagine dei giornali e nelle aperture dei telegiornali con l’accusa infamante di compiacenza mafiosa. Salvo poi scoprire, dopo anni, che quell’accusa risultava essere priva di ogni fondamento.
Un terrificante finale di partita che rischia di vanificare il sacrificio di Pio La Torre, il segretario del Pci che ha pagato con la vita la legge sulla confisca dei beni mafiosi che porta il suo nome. Una norma che, più di tutte, ha urtato la suscettibilità dei boss mafiosi. Malfattori disposti a sopportare anche il carcere più duro ma non a cedere i loro beni.
La schiera di personaggi che affollano le pagine del libro è vasta e di tutto rispetto: magistrati, avvocati, colonelli, commercialisti, professori universitari, giornalisti, prefetti. La dottoressa che faceva “scantare” Palermo, era quotidianamente assediata dai creditori, come in una pagina di Balzac. Una vita condotta al di sopra delle sue disponibilità, costretta ad alimentare un corteo di famigliari viziati e nullafacenti, intenti solo a frequentavano i circoli più esclusivi della città. Ad un certo punto, paradossalmente, la zarina alienata dalla pletora dissoluta, riesce quasi a suscitare nel lettore un sentimento di pietà. In un continuo alternarsi dei piani narrativi si snoda il calvario di imprenditori travolti da accuse infamanti. Alla fine della personale odissea faranno ritorno nella loro Itaca ormai deserta, devastata e saccheggiata, aziende fallite, come le loro vite.
La variabile impazzita che farà saltare il tappo di questo otre mefitico è il modesto giornalista di una televisione privata di provincia. Un’emittente di paese che martella e cannoneggia, senza sosta, la fortezza inespugnabile dell’ufficio sequestri, mettendo continuamente alla berlina la “sovrana” e il suo cerchio magico composto da manager che amministrano decine di aziende, con la leggerezza di giocatori di Monopoli. Sequestri di prevenzione che sortiscono l’effetto di sequestrare anche le vite degli imprenditori e delle loro famiglie. Tra le pagine inquietanti anche quello di certo giornalismo supino, pronto a fare da grancassa di distrazione di massa. Si stenta a credere possano essere vere le intercettazioni telefoniche che restituiscono i giudizi sprezzanti e denigratori della protagonista indirizzati ai figli di una figura iconica, il giudice Paolo Borsellino. La ferita mortale, quella che condurrà alla disfatta di questo surreale sistema di potere, giungerà dalla messa in onda di un servizio televisivo di una grande Rete nazionale. Un programma televisivo che svelerà al grande pubblico questa grande menzogna, una scena che sembra scivolata dalle pagine del “Consiglio d’Egitto” di Sciascia.
Leggendo il libro monta un’angoscia sempre crescente. Il lettore agogna la fine della storia come un nuotatore alle ultime bracciate. Una sorta di incubo, come l’avanzare lento e spietato di una macchina schiacciasassi che può annientare, senza pietà, la vita di chiunque. Un racconto che sottolinea come in Sicilia ci si può trovare, anche senza rendersene conto, a varcare la sottile linea che separa la luce dall’ombra. L’assunto finale del libro è contenuto nel tragico esergo, un brano tratto dalla deposizione in commissione antimafia del boss Luciano Leggio, detto Liggio. Al giudice che gli chiedeva conferma sull’esistenza della mafia, il boss sprezzante, rispondeva di non sapere nulla. Salvo chiosare con una punta di scherno che: “Certo, se esiste l’antimafia”. Lasciando dunque una sospensione drammatica, come a dire che se tutto e mafia, nulla è mafia
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