Il balletto dei candidati tra Roma e Palermo
Politica | 11 agosto 2022
Strana questa campagna elettorale d'agosto, nell'estate più calda di sempre tra solleone ed improvvisi temporali: segni di un mutamento climatico incombente che la politica non riesce ad assumere tra gli elementi centrali della propria azione. Colpisce che nella bozza di programma della coalizione di centrodestra pubblicato da Il Foglio, il tema della sostenibilità non venga citato e si accenni invece ad un titolo generico “ L'Ambiente una priorità” all'interno del quale vi sono poche e generiche indicazioni, mentre nel capitolo sulle infrastrutture si rilancia il sempiterno ponte sullo stretto di Messina. Vabbè, poco altro ci si poteva aspettare da chi è impegnato nella nobile gara della riduzione delle tasse i ricchi ( Alla tassa piatta al 23% proposta dal redivivo ex cavaliere ha risposto rilanciando il già capitano proponendo il 15%. Costerebbe circa 80 miliardi secondo le stime più accreditate: chi paga?). In realtà l'accordo programmatico, a leggerlo con attenzione, anche sul fisco usa termini di ben maggiore genericità.
La coalizione di centrodestra è data in vantaggio pressoché da tutti i sondaggisti, ma cela al suo interno diverse contraddizioni che l'attivismo dei leaders non è riuscita fin oggi a sciogliere. La prima riguarda il profilo internazionale della coalizione che non riesce a nascondere- sotto il velo delle dichiarazioni di fedeltà all'alleanza atlantica ed all'Unione Europea- le radicate relazioni con la peggiore destra europea, in particolare con il presidente ungherese Viktor Orban ed una concezione dell'Unione come Confederazione che coi riporterebbe dritti dritti all'idea dell'Europa delle nazioni ed alla sostanziale paralisi delle istituzioni comunitarie. Per non tacere delle diverse collocazioni internazionali di Forza Italia che aderisce ai Popolari europei e della Meloni che è addirittura presidente del partito dei Conservatori il quale nella dimensione continentale rappresentata soggetti politici che si avvicinano di più a posizioni reazionarie che di conservatorismo di stampo liberale.
E' in gioco il 25 settembre la visione di un paese che fa della costruzione europea una scelta chiara ed inequivoca e rinuncia alla vocazione autoritaria presente nelle democrature russa ed ungherese (ma con pericolose propaggini anche nella Polonia governata dal partito Diritto e giustizia di Mateusz Morawiecki).
Francamente non è possibile fare paragone con l'estate del 1922, esattamente cent'anni fa, che preparò la marcia su Roma e l'avvento del fascismo: ad evitare facili cantonate consiglio la lettura di “Nascita ed avvento del fascismo” di Angelo Tasca un libro scritto negli anni Trenta del secolo scorso e che rappresenta ancor oggi una delle analisi più acute delle vicende che portarono Benito Mussolini alla conquista del potere. Tuttavia, nel contesto dell'Italia attuale tra pandemia ancora presente, aggressione russa all'Ucraina, crescenti tensioni internazionali nell'area strategicamente decisiva del Pacifico (alle quali non sono estranee anche dissidi interni al gruppo dirigente democratico statunitense com'è dimostrato dalle riserve dell'amministrazione Biden sul rocambolesco viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan), il fatto che la coalizione che aspira a proporre a Sergio Mattarella il nome del prossimo presidente del Consiglio ponga ai primi due punti del capitolo intitolato “Riforme istituzionali e strutturali” l'elezione diretta del presidente della Repubblica e l'attuazione del progetto sulle autonomie differenziate suona come un forte campanello di allarme su una deriva che comporterebbe un'indubbia forzatura della Costituzione e l'ampliamento delle diseguaglianze territoriali.
L'esatto contrario di ciò che serve al paese che ha bisogno di un consolidamento delle istituzioni democratiche, di un allargamento della partecipazione, di maggiore coesione sociale e territoriale, di dare risposte al mondo del lavoro ed alle fasce di popolazione colpite dalla crisi. Per questo ha ragione- aldilà della formula poco garbata- Enrico Letta quando accusa Giorgia Meloni di essersi “incipriata” , cioè di tentar di nascondere sotto il novello make up atlantista ed europeista lo zoccolo duro della rappresentanza di una destra che guarda ad un modello economico e sociale che porterebbe ad un arretramento dell'Italia e bloccherebbe il processo di crescita che- nonostante gli ostacoli da più parte frapposti- il governo Draghi è riuscito ad innestare.
Arriviamo così alla constatazione che i due veri protagonisti della campagna elettorale sono il PD di Enrico Letta e Fratelli d'Italia della Meloni. L'opinione di chi scrive è che nel corso della tormentata legislatura appena conclusa le tradizionali coalizioni si sono liquefatte, mentre le crisi parallele di populismo e sovranismo hanno condotto al rapido tramonto delle due esperienze che apparivano portatrici di una logica antisistema: la Lega di Matteo Salvini ed il Movimento cinque stelle.
Per esempio, quanto il centrodestra sia attraversato da pulsioni e fratture governabili solo nella logica della distribuzione del potere prossimo venturo è ben visibile nella vicenda siciliana, dove – mentre scriviamo- il dato certo è la trombatura di Nello Musumeci ma l'accordo sul (sulla) candidato (a) appare assai travagliato dopo il no di FdI a Stefania Prestigiacomo. Se lo scontro tra il PD e le forze coalizzate ed contro il centrodestra a trazione meloniana porterà ad un nuovo bipolarismo lo diranno probabilmente i risultati del 25 settembre; che tuttavia è bene non dare per scontati in ragione dell'altissimo numero di possibili astenuti e della volatilità dell'elettorato che ha caratterizzato le ultime tornate elettorali.
Senza offesa per alcuno, gli altri sono più o meno comprimari. Da Carlo Calenda , sempre più simile al Jep Gambardella che ne “La grande bellezza” rivendicava come suo principale potere quello di far fallire le feste, a Matteo Renzi ridotto ormai al “Mi si vede di più se non vado o se vado e mi metto in un angolo a tenere il broncio?” In crisi evidente i dioscuri dell'secutivo Conte 1 caduto, in un agosto meno caldo dell'attuale, nell'ormai lontano 2019: Giuseppe Conte e Matteo Salvini. Nel loro rapporto, segnato dall'alternarsi di amore appassionato e di odio furioso, avevano tentato due colpi da maestro: l'elezione del capo dei servizi segreti a presidente della Repubblica e la ripetizione di quanto riuscì a Berlusconi negli ultimi mesi del governo Monti. I ministri seduti al tavolo del Consiglio dei ministri a palazzo Chigi e la gestione dell'opposizione nel paese, lasciando al solo PD il peso del sostegno al programma di governo di Mario Draghi.
Stavolta il giochino non è riuscito e ciascuno ha dovuto assumersi le proprie responsabilità. Saranno gli elettori a giudicare. Di Silvio Berlusconi meglio non parlare: invecchiare bene, scegliere modo e momento giusti per l'uscita di scena è una delle maggiori virtù del politico di qualità. Lo spettacolo che offre in questi giorni l'uomo che inventò il centrodestra in Italia e che, nel bene e nel male, ha segnato una lunga stagione politica, appartiene più all'accanimento terapeutico che alla politica. Che tristezza!
di Franco Garufi
La coalizione di centrodestra è data in vantaggio pressoché da tutti i sondaggisti, ma cela al suo interno diverse contraddizioni che l'attivismo dei leaders non è riuscita fin oggi a sciogliere. La prima riguarda il profilo internazionale della coalizione che non riesce a nascondere- sotto il velo delle dichiarazioni di fedeltà all'alleanza atlantica ed all'Unione Europea- le radicate relazioni con la peggiore destra europea, in particolare con il presidente ungherese Viktor Orban ed una concezione dell'Unione come Confederazione che coi riporterebbe dritti dritti all'idea dell'Europa delle nazioni ed alla sostanziale paralisi delle istituzioni comunitarie. Per non tacere delle diverse collocazioni internazionali di Forza Italia che aderisce ai Popolari europei e della Meloni che è addirittura presidente del partito dei Conservatori il quale nella dimensione continentale rappresentata soggetti politici che si avvicinano di più a posizioni reazionarie che di conservatorismo di stampo liberale.
E' in gioco il 25 settembre la visione di un paese che fa della costruzione europea una scelta chiara ed inequivoca e rinuncia alla vocazione autoritaria presente nelle democrature russa ed ungherese (ma con pericolose propaggini anche nella Polonia governata dal partito Diritto e giustizia di Mateusz Morawiecki).
Francamente non è possibile fare paragone con l'estate del 1922, esattamente cent'anni fa, che preparò la marcia su Roma e l'avvento del fascismo: ad evitare facili cantonate consiglio la lettura di “Nascita ed avvento del fascismo” di Angelo Tasca un libro scritto negli anni Trenta del secolo scorso e che rappresenta ancor oggi una delle analisi più acute delle vicende che portarono Benito Mussolini alla conquista del potere. Tuttavia, nel contesto dell'Italia attuale tra pandemia ancora presente, aggressione russa all'Ucraina, crescenti tensioni internazionali nell'area strategicamente decisiva del Pacifico (alle quali non sono estranee anche dissidi interni al gruppo dirigente democratico statunitense com'è dimostrato dalle riserve dell'amministrazione Biden sul rocambolesco viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan), il fatto che la coalizione che aspira a proporre a Sergio Mattarella il nome del prossimo presidente del Consiglio ponga ai primi due punti del capitolo intitolato “Riforme istituzionali e strutturali” l'elezione diretta del presidente della Repubblica e l'attuazione del progetto sulle autonomie differenziate suona come un forte campanello di allarme su una deriva che comporterebbe un'indubbia forzatura della Costituzione e l'ampliamento delle diseguaglianze territoriali.
L'esatto contrario di ciò che serve al paese che ha bisogno di un consolidamento delle istituzioni democratiche, di un allargamento della partecipazione, di maggiore coesione sociale e territoriale, di dare risposte al mondo del lavoro ed alle fasce di popolazione colpite dalla crisi. Per questo ha ragione- aldilà della formula poco garbata- Enrico Letta quando accusa Giorgia Meloni di essersi “incipriata” , cioè di tentar di nascondere sotto il novello make up atlantista ed europeista lo zoccolo duro della rappresentanza di una destra che guarda ad un modello economico e sociale che porterebbe ad un arretramento dell'Italia e bloccherebbe il processo di crescita che- nonostante gli ostacoli da più parte frapposti- il governo Draghi è riuscito ad innestare.
Arriviamo così alla constatazione che i due veri protagonisti della campagna elettorale sono il PD di Enrico Letta e Fratelli d'Italia della Meloni. L'opinione di chi scrive è che nel corso della tormentata legislatura appena conclusa le tradizionali coalizioni si sono liquefatte, mentre le crisi parallele di populismo e sovranismo hanno condotto al rapido tramonto delle due esperienze che apparivano portatrici di una logica antisistema: la Lega di Matteo Salvini ed il Movimento cinque stelle.
Per esempio, quanto il centrodestra sia attraversato da pulsioni e fratture governabili solo nella logica della distribuzione del potere prossimo venturo è ben visibile nella vicenda siciliana, dove – mentre scriviamo- il dato certo è la trombatura di Nello Musumeci ma l'accordo sul (sulla) candidato (a) appare assai travagliato dopo il no di FdI a Stefania Prestigiacomo. Se lo scontro tra il PD e le forze coalizzate ed contro il centrodestra a trazione meloniana porterà ad un nuovo bipolarismo lo diranno probabilmente i risultati del 25 settembre; che tuttavia è bene non dare per scontati in ragione dell'altissimo numero di possibili astenuti e della volatilità dell'elettorato che ha caratterizzato le ultime tornate elettorali.
Senza offesa per alcuno, gli altri sono più o meno comprimari. Da Carlo Calenda , sempre più simile al Jep Gambardella che ne “La grande bellezza” rivendicava come suo principale potere quello di far fallire le feste, a Matteo Renzi ridotto ormai al “Mi si vede di più se non vado o se vado e mi metto in un angolo a tenere il broncio?” In crisi evidente i dioscuri dell'secutivo Conte 1 caduto, in un agosto meno caldo dell'attuale, nell'ormai lontano 2019: Giuseppe Conte e Matteo Salvini. Nel loro rapporto, segnato dall'alternarsi di amore appassionato e di odio furioso, avevano tentato due colpi da maestro: l'elezione del capo dei servizi segreti a presidente della Repubblica e la ripetizione di quanto riuscì a Berlusconi negli ultimi mesi del governo Monti. I ministri seduti al tavolo del Consiglio dei ministri a palazzo Chigi e la gestione dell'opposizione nel paese, lasciando al solo PD il peso del sostegno al programma di governo di Mario Draghi.
Stavolta il giochino non è riuscito e ciascuno ha dovuto assumersi le proprie responsabilità. Saranno gli elettori a giudicare. Di Silvio Berlusconi meglio non parlare: invecchiare bene, scegliere modo e momento giusti per l'uscita di scena è una delle maggiori virtù del politico di qualità. Lo spettacolo che offre in questi giorni l'uomo che inventò il centrodestra in Italia e che, nel bene e nel male, ha segnato una lunga stagione politica, appartiene più all'accanimento terapeutico che alla politica. Che tristezza!
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