Ovazza, l'ingegnere ebreo comunista
padre della riforma agraria
Società | 6 dicembre 2024
Alle nuove generazioni, a quei tanti giovani che in buona fede si lasciano coinvolgere in poco accettabili forme di antisemitismo pensando così di legittimare il proprio profilo di sinistra, il nome di Mario Ovazza, un ebreo siciliano comunista, che tanto ha dato alle lotte per l’emancipazione sociale delle classi meno abbienti, purtroppo, non dice nulla, come non dice nulla alla gran parte dei siciliani. Eppure, quest’uomo, questo illuminato professionista che, per tutta la sua vita, non ha mai tralasciato di spendersi per strappare l’isola al sottosviluppo, alla miseria e alla criminalità mafiosa, è stato un protagonista della migliore storia politica dell’autonomia regionale siciliana. Ovazza, per nascita siciliano non era, apparteneva ad un ramo di una grande famiglia ebraica piemontese che si era trasferita a Palermo al tempo della Belle Époque, il padre Elia era un illustre accademico, professore di ingegneria dell’università di Palermo. E tuttavia fu siciliano nel senso migliore del termine, infatti si occupò sempre, e fece proprie, delle tematiche legate al progresso sociale dell’isola. Un uomo animato da un grande spirito solidarista che manifestò fin da giovane, basta ricordare come, negli anni del primo conflitto mondiale, pur potendo starsene a casa, proprio per obbedire all’imperativo categorico di non approfittare di situazioni di vantaggio, non ebbe esitazione ad arruolarsi volontario riportando, nel corso dei combattimenti, una ferita all’occhio che, alla lunga, l’avrebbe reso cieco. Nel primo dopoguerra, l’euforia per la vittoria, anche se pagata a carissimo prezzo, e le “lusinghe pseudo patriottiche” di cui il fascismo si faceva espressione, lo portarono a aderire al movimento mussoliniano.
Ma la sua adesione non era motivata dai miti che il regime alimentava ma dalla convinzione che il fascismo potesse imporre ai grandi latifondisti siciliani un’idea della modernizzazione per porre una volta e per tutte fine all’immobilismo della Sicilia feudale. Si convinse, infatti, che le riforme varate dal regime avrebbero cambiato in positivo la faccia della Sicilia e redento le masse contadine le cui condizioni, miserrime, erano ben poco cambiate dai tempi dell’unità. Il fascismo utilizzò la sua disponibilità e le relative competenze nominandolo, infatti, direttore dell’Els, Ente per il latifondo siciliano. Un incarico che onorò con passione impegnandosi con tutte le sue forze nell’attuazione delle riforme approvate. Ben presto, tuttavia, si rese conto che il fascismo era ben altro e che la sua weltanschauung non coincideva con gli ideali e le passioni che lo spingevano a spendersi per il bene della sua terra.
Il suo allontanamento progressivo dal regime si consumò con l’approvazione, nel 1938, dell’abietto decreto di difesa della razza di cui fu egli stesso vittima; fu infatti cancellato dall’albo degli ingegneri, in quanto ebreo. Da quel momento, dovette defilarsi in una “condizione di semiclandestinità” che trovò conforto e sostegno nell’arcivescovo di Monreale, monsignor Filippi. Riemerse, da questa forzata semiclandestinità, con la liberazione della Sicilia. Riconoscendone le grandi competenze, fu infatti chiamato ad offrire il proprio contributo tecnico al governo militare alleato. La svolta, tuttavia, avvenne quando Fausto Gullo, famoso per essere stato “il ministro dei contadini”, lo volle alla direzione dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano. In quegli anni, la Sicilia soffriva, fra l’altro, della mancanza di energia elettrica oltre che di acqua e proprio per rispondere a queste emergenze Ovazza propose la costruzione di grandi dighe che avrebbero fornito energia elettrica e acqua per una terra assetata come quella siciliana. Un programma che, almeno per l’acqua, continua ad essere di grande attualità. Intanto, da direttore dell’ente di colonizzazione, sollecitava un programma di riforma agraria basato sull’esproprio del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini, assegnando allo Stato l’obbligo di fornire assistenza tecnica.
Fra le sue proposte c’era anche quella di una riforma agraria che portasse all’esproprio delle grandi proprietà e alla conseguente distribuzione della terra ai contadini. Proposte che non potevano che renderlo inviso alla destra agraria preoccupata, fra l’altro, dei suoi legami sempre più stretti con la Confederterra ramo sindacale della Cgil. Proprio la destra agraria ne chiese e ottenne la rimozione dalle sue funzioni di direttore dell’Ente di colonizzazione. Una scorrettezza consolidò la sua decisione, maturata da tempo e rafforzata dopo la strage di Portella della Ginestra, di aderire al Pci, ritenendo quel partito il più idoneo a promuovere e a condurre quelle battaglie di riforma necessarie allo sviluppo e alla crescita sociale ed economica della Sicilia.
Da quel momento in poi si dedicò solo all’attività politica, accolto a braccia aperte dal Pci che ne fece l’uomo di punta per i problemi dell’agricoltura in Assemblea regionale siciliana. E da deputato regionale fu uno dei padri della riforma agraria. Per quattro legislature la sua voce, quella di un uomo rigoroso e onesto intellettualmente, è risuonata in Sala d’Ercole onorando il suo mandato in difesa di un’autonomia regionale che aveva immaginato al servizio della gente di Sicilia ma che gli si era rivelata, lo scrive Nicolò Bucaria, “come una grande mistificazione, la legalizzazione del saccheggio delle risorse pubbliche da parte di pochi gruppi organizzati”. (Giornale di Sicilia 6 dicembre 2024)
di Pasquale Hamel
Ma la sua adesione non era motivata dai miti che il regime alimentava ma dalla convinzione che il fascismo potesse imporre ai grandi latifondisti siciliani un’idea della modernizzazione per porre una volta e per tutte fine all’immobilismo della Sicilia feudale. Si convinse, infatti, che le riforme varate dal regime avrebbero cambiato in positivo la faccia della Sicilia e redento le masse contadine le cui condizioni, miserrime, erano ben poco cambiate dai tempi dell’unità. Il fascismo utilizzò la sua disponibilità e le relative competenze nominandolo, infatti, direttore dell’Els, Ente per il latifondo siciliano. Un incarico che onorò con passione impegnandosi con tutte le sue forze nell’attuazione delle riforme approvate. Ben presto, tuttavia, si rese conto che il fascismo era ben altro e che la sua weltanschauung non coincideva con gli ideali e le passioni che lo spingevano a spendersi per il bene della sua terra.
Il suo allontanamento progressivo dal regime si consumò con l’approvazione, nel 1938, dell’abietto decreto di difesa della razza di cui fu egli stesso vittima; fu infatti cancellato dall’albo degli ingegneri, in quanto ebreo. Da quel momento, dovette defilarsi in una “condizione di semiclandestinità” che trovò conforto e sostegno nell’arcivescovo di Monreale, monsignor Filippi. Riemerse, da questa forzata semiclandestinità, con la liberazione della Sicilia. Riconoscendone le grandi competenze, fu infatti chiamato ad offrire il proprio contributo tecnico al governo militare alleato. La svolta, tuttavia, avvenne quando Fausto Gullo, famoso per essere stato “il ministro dei contadini”, lo volle alla direzione dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano. In quegli anni, la Sicilia soffriva, fra l’altro, della mancanza di energia elettrica oltre che di acqua e proprio per rispondere a queste emergenze Ovazza propose la costruzione di grandi dighe che avrebbero fornito energia elettrica e acqua per una terra assetata come quella siciliana. Un programma che, almeno per l’acqua, continua ad essere di grande attualità. Intanto, da direttore dell’ente di colonizzazione, sollecitava un programma di riforma agraria basato sull’esproprio del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini, assegnando allo Stato l’obbligo di fornire assistenza tecnica.
Fra le sue proposte c’era anche quella di una riforma agraria che portasse all’esproprio delle grandi proprietà e alla conseguente distribuzione della terra ai contadini. Proposte che non potevano che renderlo inviso alla destra agraria preoccupata, fra l’altro, dei suoi legami sempre più stretti con la Confederterra ramo sindacale della Cgil. Proprio la destra agraria ne chiese e ottenne la rimozione dalle sue funzioni di direttore dell’Ente di colonizzazione. Una scorrettezza consolidò la sua decisione, maturata da tempo e rafforzata dopo la strage di Portella della Ginestra, di aderire al Pci, ritenendo quel partito il più idoneo a promuovere e a condurre quelle battaglie di riforma necessarie allo sviluppo e alla crescita sociale ed economica della Sicilia.
Da quel momento in poi si dedicò solo all’attività politica, accolto a braccia aperte dal Pci che ne fece l’uomo di punta per i problemi dell’agricoltura in Assemblea regionale siciliana. E da deputato regionale fu uno dei padri della riforma agraria. Per quattro legislature la sua voce, quella di un uomo rigoroso e onesto intellettualmente, è risuonata in Sala d’Ercole onorando il suo mandato in difesa di un’autonomia regionale che aveva immaginato al servizio della gente di Sicilia ma che gli si era rivelata, lo scrive Nicolò Bucaria, “come una grande mistificazione, la legalizzazione del saccheggio delle risorse pubbliche da parte di pochi gruppi organizzati”. (Giornale di Sicilia 6 dicembre 2024)
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