Trump e Putin, la logica del dominio
Politica | 27 marzo 2025
Vi ricordano qualcuno Putin e Trump? Vediamo un po’. Così, all’impronta, i collodiani Gatto e Volpe che si papparono le monete di Pinocchio. E poi due bollati per l’eternità con il marchio dell’infamia, i ministri degli esteri della Germania nazista Joachim von Ribbentrop e dell’Unione Sovietica Vjaceslav Molotov che il 23 agosto 1939 firmarono il Patto che porta i loro cognomi. Con il quale si papparono la Polonia, metà per uno. Pinocchio e Polonia ora corrispondono alla “martoriata” Ucraina, come non cessava di definirla papa Francesco finché voce e acciacchi gli hanno consentito di levare il suo grido. Tra terre rare, risorse agricole, minerali, lucrosa ricostruzione da gestire, cosa emerge dalle tribolazioni e dai lutti dei bombardatissimi 40 milioni di ucraini? Una novità vecchia come il cucco: tutte le guerre - siano “di religione” o ammantate di “principi irrinunciabili”, di “patria”, di “sicurezza nazionale” - scoppiano e si combattono sempre e solo per motivi economici e possesso di territori. Da Caino e Abele a scendere non è che il genere umano abbia cambiato abitudini.
Beninteso, non dobbiamo essere disfattisti. È fondamentale che Usa e Russia abbiano ripreso a parlarsi. Che si siano riaperti i canali di comunicazione tra i due giganti che ragionano in grande. Tanto in grande che detengono in due tra 10.000 e 13.000 testate atomiche quando è risaputo che per distruggere il mondo una cinquantina bastano e avanzano. Canali di comunicazione pericolosamente chiusi dall’amministrazione Biden e dallo zar senza quarti di nobiltà del Cremlino. “Il sonno della diplomazia genera mostri” scriveva sulla rivista “Il Mulino” Patrizia Fondi il 22 marzo 2024. Una interessante analisi il cui titolo – sacrosanto – parafrasava il titolo di un’opera del 1797 del grande pittore spagnolo Francisco Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Argomentava tra l’altro la Fondi: “Il vero scopo della diplomazia non è tanto instaurare un dialogo con gli amici, quanto piuttosto con gli interlocutori difficili, che siano autocrati, dittatori o terroristi. Pensare il contrario significa abbattere drasticamente le potenzialità del metodo diplomatico, riducendo irrazionalmente il proprio ventaglio di strumenti per la ricerca di una soluzione pacifica. Egualmente, porre pre-condizioni per accettare di intavolare il negoziato significa non farlo decollare, vale a dire in realtà non volerlo (se in una guerra si chiede il preventivo ritiro delle truppe avversarie, ovviamente il negoziato non partirà mai)”.
E allora via a “complesse” trattative con la mediazione americana. In Arabia Saudita, campo neutro che sta bene a russi, americani, ucraini. Putin vorrebbe l’Ucraina smilitarizzata e smembrata. Con cinque regioni orientali – Crimea, Donetsk, Lugansk, Kerson, Zaporizhzhia – ormai definitivamente “cosa nostra” della Russia. Grazie alla prima invasione del 2014, alla guerra in corso (pardon, all’“operazione speciale”) e a plebisciti-farsa imposti nel 2022 che hanno sancito l’annessione alla Russia di territori peraltro in più di un caso non completamente controllati da Mosca. Trump dal canto suo pare emulare in Ucraina quello che Leopoldo II, re del Belgio, fece nel Congo nel 1887-1909 portandosi sulla coscienza una decina di milioni di indigeni morti di stenti, fame e sfruttamento: una colonia personale dalla quale estorcere quanta più ricchezza. A titolo di risarcimento per le armi, gli aiuti, i prestiti inviati a Kiev da Biden. Gli europei, esclusi dai negoziati, cercano faticosamente e confusamente di ritagliarsi un ruolo. Fioccano ipotesi, formule e geometrie per tregue, negoziati e impegni da sottoscrivere. Si parla di peacekeeper “ad anelli”: una prima linea sui duemila chilometri caldi di frontiera e territori contesi tra Russia e Ucraina dove posizionare militari di paesi del “Sud globale” non invisi a Mosca; una seconda linea presidiata dall’esercito ucraino; un terzo posizionamento nell’Ucraina centrale e occidentale con militari di paesi europei o filo-occidentali (che i russi vedono come fumo negli occhi). E una quarta linea protettiva garantita non da armati ma dagli asset e dai nuovi interessi economici diretti americani in Ucraina – nelle miniere, nell’energia, nell’agricoltura, nelle infrastrutture – che, pur senza armi, dovrebbe fungere da deterrente e dissuadere il Cremlino Mosca da nuovi colpi di testa. Ipotesi, nulla più di ipotesi al momento. Insomma una delle poche certezze è che il nuovo “protettorato” americano dell’Ucraina è bell’e servito. Trump nella sua ipertrofica visione dell’“America first” e del “Make America Great Again” fantastica di acquisire terre e popoli più di Gengis Khan il conquistatore (1162-1227): Groenlandia, Canada, Canale di Panama e dintorni, Gaza, Ucraina. Un turbinio di “Questo me lo prendo”, “Questo mi appartiene” che lascia di stucco.
Negoziati contro le aberrazioni della guerra
La domanda è: nel negoziato a rappresentanza esclusiva russa e americana dove non c’è posto per l’Unione Europea e l’Ucraina ha solo un ruolo preassegnato di sparring-partner o, per dirla più chiaramente, di prendi-pugni, alla fine prevarrà la forza del diritto (internazionale) o il diritto della forza? Bisogna essere sempre, comunque, dovunque per il negoziato contro l’aberrazione della guerra. Ben vengano queste “pause” nelle quali la diplomazia cerca di battere un colpo, di riprendersi la scena, di far tacere le armi, ma la risposta alla nostra domanda ci sembra scontata. Prevarrà il diritto della forza. Innanzitutto della Russia e poi degli Usa. E le generazioni future avranno per chissà quanti decenni in Europa un bis della frontiera tra le due Coree. Dove – lo ricordiamo – è stato siglato il 27 luglio 1953 un armistizio ma mai una pace. A ovest del modello Corea in Europa ci sarà l’Ucraina “superstite” e mutilata come un grande invalido e quel che resta dell’Occidente; a est ci sarà la Russia.
Intanto piccoli Trump crescono. Il vicepresidente americano J. D. Vance, che smania di accreditarsi come naturale successore del suo mentore Trump, su di una chat riservata - la chat “Signal” dei principali esponenti dell’attuale governo degli Usa nella quale si messaggiava con informazioni classificate su atti di guerra da compiere in Yemen - ha scritto in risposta al segretario alla Difesa, Hegseth: “Se pensi che dovremmo farlo, andiamo. Odio dover salvare di nuovo l’Europa”. Hegseth, di rimando: “Condivido pienamente il tuo odio per il parassita europeo. È patetico. Ma (…) siamo gli unici sul pianeta (dalla nostra parte del registro) che possiamo farlo. Nessun altro ci si avvicina nemmeno (…)”. E il consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, Waltz - a proposito dell’azione in argomento contro gli Houthi per la sicurezza della navigazione sulla rotta Oceano Indiano-Mar Rosso-Canale di Suez e del bombardamento poi concretizzata il 15 marzo sugli Houthi nella capitale yemenita Sana’a’ - chiosava che il suo team sta lavorando con Dipartimenti di Stato e della Difesa “per determinare come calcolare i costi associati e addebitarli agli europei”. Trump il giorno dopo, interpellato dai giornalisti sull’affermazione del suo vice, gli ha dato ragione: “Penso che gli europei siano dei parassiti”.
Domanda: ma siamo sicuri che questi sotto-carneade assurti a statisti siano i nostri alleati? Che i più acerrimi nemici dell’Unione Europea siano stati Putin e Trump è risaputo. Quello che colpisce è il gioco al rialzo, la corsa alla cattiveria e alla protervia, a “spararla più grossa” tra i cortigiani di Trump per accreditarsi con il capoclan. Una cupola che diventa sempre più cupola. Nei modi, nel linguaggio, nella provocazione.
Dove portano sfoggio muscolare e arroganza Questo sfoggio tutto americano-muscolare di arroganza da cow-boy, di ricatti e minacce, nulla toglie ad una nostra convinzione: Donald Trump è nelle mani di Vladimir Putin. Settimana dopo settimana lo sta sdoganando, lo sta facendo risalire nel ranking dei padroni del mondo dall’isolamento in cui l’invasione dell’Ucraina e il grande freddo nei rapporti con decine di paesi lo avevano fatto sprofondare negli ultimi tre anni e mezzo. Trump non se ne accorge o fa finta di non accorgersene. Sta succedendo quello che Putin prefigurava quando parlava di “Nuovo ordine mondiale” o altri parlavano di “Yalta 2” in cui la Russia torna a posizionarsi al top. Non è un prezzo troppo elevato da pagare? Per Trump no rispetto al suo imperativo strategico di staccare il capo del Cremlino dall’abbraccio strettissimo (e subordinato) con la Cina. Gli Usa sono convinti di giocarsela negli anni a venire nel confronto con i cinesi ma sarebbe ostacolo insormontabile avere contro in contemporanea sia Mosca che Pechino. E se in queste grandi manovre planetarie c’è da mollare il continente europeo strateghi e statisti dell’amministrazione Trump non ci perderanno il sonno, non saranno assaliti da sensi di colpa.
Consentiteci due autocitazioni. Sempre antipatiche perché rischiano di farci apparire insopportabilmente saccenti. Ma a volte necessarie. Anche perché scritte su questo sito. La prima, del 28 dicembre 2023, era intitolata “Chi vince e chi perde, l’età dell’oro dell’industria bellica sui fronti di guerra”. Ci chiedevamo: “Chi sta vincendo e chi sta perdendo in Ucraina e Medio Oriente? Risposta facile facile. Vincono Putin e gli ayatollah iraniani”. Lo confermiamo. Qualcuno può nutrire un solo grammo di dubbio che Putin stia vincendo e vincerà in Ucraina? Sia la guerra che la trattativa nella quale fioccano le condizioni che egli impone. Grazie anche a Trump. Sembra viceversa errata la previsione riguardante l’Iran. Sempre più appoggiato dagli Usa di Trump, Israele ha zittito di molto le pretese iraniane nell’area sia con raid a domicilio sia bastonando succursali e amicizie di Teheran in Libano, Siria, Palestina, Yemen. A questo punto della partita Israele è in netto vantaggio sull’Iran. Ma la partita è ancora in corso e se entra in campo un 13° che si chiama “iraniani che si dotano dell’atomica” – è la loro aspirazione – l’esito dell’incontro torna a essere imprevedibile. Quello viceversa assodato è che quanto succede a Gaza e in Cisgiordania sta facendo impallidire i concetti di “atto di guerra” e “rappresaglia”. Ci hanno fatto inorridire i rapporti di 1 a 10 di marca nazista. Come a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944: 33 SS tedesche morte e 335 nostri martiri sparati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. Ma che dire delle proporzioni tra i 1194 (secondo altre fonti 1223) israeliani sterminati dai terroristi di Hamas nella aberrante carneficina del 7 ottobre 2023 più circa 250 rapiti da una parte e i 50.000 e più morti di Gaza ad opera di aviazione e esercito con la stella di Davide dall’altra parte? Calcolatrice alla mano, qui il rapporto dei numeri tra fatto cruento e reazione/rappresaglia sale vertiginosamente: 1 a 35. Finora. Non abbiamo nulla da dire al riguardo? Per Israele – e chi scrive è stato sempre dalla parte di Israele, del suo diritto di esistere come stato senza se e senza ma – tutto è permesso nel nome del “risarcimento” per il genocidio e l’olocausto che correttamente dobbiamo al popolo ebraico? No. Non può essere così. Fermiamo la follia stragista di Benjamin Netanyahu. Deve rispondere dei crimini di guerra di cui sta macchiando indelebilmente l’intera nazione. Anche i milioni di israeliani che protestano giornalmente contro l’operato di quest’altro portatore di morti e di stragi, categoria piuttosto nutrita nella storia umana. Governo israeliano ultraconservatore come ultraconservatrice è l’amministrazione in carica negli Stati Uniti. Ma guarda un po’ che analogie…
La seconda autocitazione per chiudere. Risale, sempre su questo sito, al 5 febbraio 2022. Titolo: “Ucraina, inestricabile matassa”. Siamo 19 giorni prima dell’invasione russa. Giorni in cui si era sospesi tra le speranze che i russi non avrebbero attaccato e il timore che lo facessero. Mosca richiedeva che non solo Kiev non avrebbe mai dovuto fare parte della Nato ma addirittura che Romania e Bulgaria dovevano uscirne. Tipica tattica di avanzare pretese su pretese per rendere giustificabile l’aggressione. Ci siamo inventati in quei giorni un esercizio, una ipotesi di appeasement che impedisse di mettere in moto carri armati e aerei in direzione Ucraina. Riportiamo quella pagina, scritta prima che un numero imprecisato (molte centinaia di migliaia sicuramente) di ucraini e russi fosse sacrificato da Putin sull’altare dell’imperialismo di Mosca:
“Ma ecco, nei punti essenziali, una proposta ragionevole e possibile che potrebbe tenere conto delle esigenze delle parti in causa.
1. L’Ucraina congela formalmente la sua entrata nella Nato per un arco temporale che tranquillizzi Mosca, ad esempio per un decennio.
2. L’Ucraina, invece di entrate nella Nato, si attrezza politicamente, socialmente ed economicamente per entrare nell’Unione Europea che non è e non viene vissuta da Mosca come un’alleanza militare.
3. Bulgaria e Romania restano ovviamente nella Nato.
4. La Russia ritira le armate dai suoi territori a ridosso del confine orientale dell’Ucraina e mette fine alle sue esibizioni muscolari fatte di continue esercitazioni e manovre.
5. La Crimea con Sebastopoli rimane nell’orbita territoriale russa. È dura incassare la legittimazione di un atto illegittimo e violento compiuto nel 2014 però non esistono alternative: senza la Crimea e senza Sebastopoli la Russia diventa insignificante nel Mar Nero e nel Mediterraneo come superpotenza navale e dunque la Russia non vi rinuncerà mai.
6. Le regioni secessioniste filorusse orientali dell’Ucraina – ossia quelle di Donestsk e di Lugansk nel Donbass - diventano il secondo troncone dello Stato federale in cui dovrà trasformarsi l’Ucraina. Uno Stato federale con due entità (una composta dalle regioni occidentali – e filoccidentali – e l’altra dalle regioni orientali filorusse) dotate di amplissima autonomia all’interno della cornice statuale unica. Coesistenza difficilissima ma necessaria. (…)”.
Oggi, dopo tre anni e passa di morti e distruzioni i punti 1-2-3-5 si dimostrano sensati e reggono. Il 4 e il 6 sono inattuali. Sul campo il diritto della forza ha sancito che anche nel XXI secolo si può aggredire una nazione confinante indipendente, riconosciuta dalla comunità internazionale nella sua integrità territoriale, e prendersi ampie porzioni del suo territorio. La “Dottrina Putin” ha vinto. A proposito: ma non vi dà fastidio la Corsica – isola geograficamente italiana: la lingua corsa è comprensibilissima, persino più di tanti altri dialetti italiani – che appartiene alla Francia? Perché non la invadiamo e ce la riprendiamo? Anche Nizza, anche la Savoia. E perché gli spagnoli non si riprendono Gibilterra? E perché gli inglesi non si riprendono tutta l’Irlanda? E perché Israele non si prende Cisgiordania e Gaza, tanto è già a buon punto? Coraggio, in nome della “Dottrina Putin” tutto è possibile. Basta solo sterminare migliaia, centinaia di migliaia, milioni di essere umani, distruggere una nazione (che importanza ha? sono solo danni collaterali) e i sogni di gloria diventano realtà. In alternativa si potrebbero scatenare guerre commerciali e dei dazi a piacimento e ci si potrebbe impossessare di tutte le Groenlandie del mondo. Così si diventa condottieri e si entra da protagonisti nei libri di storia.
di Pino Scorciapino
Beninteso, non dobbiamo essere disfattisti. È fondamentale che Usa e Russia abbiano ripreso a parlarsi. Che si siano riaperti i canali di comunicazione tra i due giganti che ragionano in grande. Tanto in grande che detengono in due tra 10.000 e 13.000 testate atomiche quando è risaputo che per distruggere il mondo una cinquantina bastano e avanzano. Canali di comunicazione pericolosamente chiusi dall’amministrazione Biden e dallo zar senza quarti di nobiltà del Cremlino. “Il sonno della diplomazia genera mostri” scriveva sulla rivista “Il Mulino” Patrizia Fondi il 22 marzo 2024. Una interessante analisi il cui titolo – sacrosanto – parafrasava il titolo di un’opera del 1797 del grande pittore spagnolo Francisco Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Argomentava tra l’altro la Fondi: “Il vero scopo della diplomazia non è tanto instaurare un dialogo con gli amici, quanto piuttosto con gli interlocutori difficili, che siano autocrati, dittatori o terroristi. Pensare il contrario significa abbattere drasticamente le potenzialità del metodo diplomatico, riducendo irrazionalmente il proprio ventaglio di strumenti per la ricerca di una soluzione pacifica. Egualmente, porre pre-condizioni per accettare di intavolare il negoziato significa non farlo decollare, vale a dire in realtà non volerlo (se in una guerra si chiede il preventivo ritiro delle truppe avversarie, ovviamente il negoziato non partirà mai)”.
E allora via a “complesse” trattative con la mediazione americana. In Arabia Saudita, campo neutro che sta bene a russi, americani, ucraini. Putin vorrebbe l’Ucraina smilitarizzata e smembrata. Con cinque regioni orientali – Crimea, Donetsk, Lugansk, Kerson, Zaporizhzhia – ormai definitivamente “cosa nostra” della Russia. Grazie alla prima invasione del 2014, alla guerra in corso (pardon, all’“operazione speciale”) e a plebisciti-farsa imposti nel 2022 che hanno sancito l’annessione alla Russia di territori peraltro in più di un caso non completamente controllati da Mosca. Trump dal canto suo pare emulare in Ucraina quello che Leopoldo II, re del Belgio, fece nel Congo nel 1887-1909 portandosi sulla coscienza una decina di milioni di indigeni morti di stenti, fame e sfruttamento: una colonia personale dalla quale estorcere quanta più ricchezza. A titolo di risarcimento per le armi, gli aiuti, i prestiti inviati a Kiev da Biden. Gli europei, esclusi dai negoziati, cercano faticosamente e confusamente di ritagliarsi un ruolo. Fioccano ipotesi, formule e geometrie per tregue, negoziati e impegni da sottoscrivere. Si parla di peacekeeper “ad anelli”: una prima linea sui duemila chilometri caldi di frontiera e territori contesi tra Russia e Ucraina dove posizionare militari di paesi del “Sud globale” non invisi a Mosca; una seconda linea presidiata dall’esercito ucraino; un terzo posizionamento nell’Ucraina centrale e occidentale con militari di paesi europei o filo-occidentali (che i russi vedono come fumo negli occhi). E una quarta linea protettiva garantita non da armati ma dagli asset e dai nuovi interessi economici diretti americani in Ucraina – nelle miniere, nell’energia, nell’agricoltura, nelle infrastrutture – che, pur senza armi, dovrebbe fungere da deterrente e dissuadere il Cremlino Mosca da nuovi colpi di testa. Ipotesi, nulla più di ipotesi al momento. Insomma una delle poche certezze è che il nuovo “protettorato” americano dell’Ucraina è bell’e servito. Trump nella sua ipertrofica visione dell’“America first” e del “Make America Great Again” fantastica di acquisire terre e popoli più di Gengis Khan il conquistatore (1162-1227): Groenlandia, Canada, Canale di Panama e dintorni, Gaza, Ucraina. Un turbinio di “Questo me lo prendo”, “Questo mi appartiene” che lascia di stucco.
Negoziati contro le aberrazioni della guerra
La domanda è: nel negoziato a rappresentanza esclusiva russa e americana dove non c’è posto per l’Unione Europea e l’Ucraina ha solo un ruolo preassegnato di sparring-partner o, per dirla più chiaramente, di prendi-pugni, alla fine prevarrà la forza del diritto (internazionale) o il diritto della forza? Bisogna essere sempre, comunque, dovunque per il negoziato contro l’aberrazione della guerra. Ben vengano queste “pause” nelle quali la diplomazia cerca di battere un colpo, di riprendersi la scena, di far tacere le armi, ma la risposta alla nostra domanda ci sembra scontata. Prevarrà il diritto della forza. Innanzitutto della Russia e poi degli Usa. E le generazioni future avranno per chissà quanti decenni in Europa un bis della frontiera tra le due Coree. Dove – lo ricordiamo – è stato siglato il 27 luglio 1953 un armistizio ma mai una pace. A ovest del modello Corea in Europa ci sarà l’Ucraina “superstite” e mutilata come un grande invalido e quel che resta dell’Occidente; a est ci sarà la Russia.
Intanto piccoli Trump crescono. Il vicepresidente americano J. D. Vance, che smania di accreditarsi come naturale successore del suo mentore Trump, su di una chat riservata - la chat “Signal” dei principali esponenti dell’attuale governo degli Usa nella quale si messaggiava con informazioni classificate su atti di guerra da compiere in Yemen - ha scritto in risposta al segretario alla Difesa, Hegseth: “Se pensi che dovremmo farlo, andiamo. Odio dover salvare di nuovo l’Europa”. Hegseth, di rimando: “Condivido pienamente il tuo odio per il parassita europeo. È patetico. Ma (…) siamo gli unici sul pianeta (dalla nostra parte del registro) che possiamo farlo. Nessun altro ci si avvicina nemmeno (…)”. E il consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, Waltz - a proposito dell’azione in argomento contro gli Houthi per la sicurezza della navigazione sulla rotta Oceano Indiano-Mar Rosso-Canale di Suez e del bombardamento poi concretizzata il 15 marzo sugli Houthi nella capitale yemenita Sana’a’ - chiosava che il suo team sta lavorando con Dipartimenti di Stato e della Difesa “per determinare come calcolare i costi associati e addebitarli agli europei”. Trump il giorno dopo, interpellato dai giornalisti sull’affermazione del suo vice, gli ha dato ragione: “Penso che gli europei siano dei parassiti”.
Domanda: ma siamo sicuri che questi sotto-carneade assurti a statisti siano i nostri alleati? Che i più acerrimi nemici dell’Unione Europea siano stati Putin e Trump è risaputo. Quello che colpisce è il gioco al rialzo, la corsa alla cattiveria e alla protervia, a “spararla più grossa” tra i cortigiani di Trump per accreditarsi con il capoclan. Una cupola che diventa sempre più cupola. Nei modi, nel linguaggio, nella provocazione.
Dove portano sfoggio muscolare e arroganza Questo sfoggio tutto americano-muscolare di arroganza da cow-boy, di ricatti e minacce, nulla toglie ad una nostra convinzione: Donald Trump è nelle mani di Vladimir Putin. Settimana dopo settimana lo sta sdoganando, lo sta facendo risalire nel ranking dei padroni del mondo dall’isolamento in cui l’invasione dell’Ucraina e il grande freddo nei rapporti con decine di paesi lo avevano fatto sprofondare negli ultimi tre anni e mezzo. Trump non se ne accorge o fa finta di non accorgersene. Sta succedendo quello che Putin prefigurava quando parlava di “Nuovo ordine mondiale” o altri parlavano di “Yalta 2” in cui la Russia torna a posizionarsi al top. Non è un prezzo troppo elevato da pagare? Per Trump no rispetto al suo imperativo strategico di staccare il capo del Cremlino dall’abbraccio strettissimo (e subordinato) con la Cina. Gli Usa sono convinti di giocarsela negli anni a venire nel confronto con i cinesi ma sarebbe ostacolo insormontabile avere contro in contemporanea sia Mosca che Pechino. E se in queste grandi manovre planetarie c’è da mollare il continente europeo strateghi e statisti dell’amministrazione Trump non ci perderanno il sonno, non saranno assaliti da sensi di colpa.
Consentiteci due autocitazioni. Sempre antipatiche perché rischiano di farci apparire insopportabilmente saccenti. Ma a volte necessarie. Anche perché scritte su questo sito. La prima, del 28 dicembre 2023, era intitolata “Chi vince e chi perde, l’età dell’oro dell’industria bellica sui fronti di guerra”. Ci chiedevamo: “Chi sta vincendo e chi sta perdendo in Ucraina e Medio Oriente? Risposta facile facile. Vincono Putin e gli ayatollah iraniani”. Lo confermiamo. Qualcuno può nutrire un solo grammo di dubbio che Putin stia vincendo e vincerà in Ucraina? Sia la guerra che la trattativa nella quale fioccano le condizioni che egli impone. Grazie anche a Trump. Sembra viceversa errata la previsione riguardante l’Iran. Sempre più appoggiato dagli Usa di Trump, Israele ha zittito di molto le pretese iraniane nell’area sia con raid a domicilio sia bastonando succursali e amicizie di Teheran in Libano, Siria, Palestina, Yemen. A questo punto della partita Israele è in netto vantaggio sull’Iran. Ma la partita è ancora in corso e se entra in campo un 13° che si chiama “iraniani che si dotano dell’atomica” – è la loro aspirazione – l’esito dell’incontro torna a essere imprevedibile. Quello viceversa assodato è che quanto succede a Gaza e in Cisgiordania sta facendo impallidire i concetti di “atto di guerra” e “rappresaglia”. Ci hanno fatto inorridire i rapporti di 1 a 10 di marca nazista. Come a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944: 33 SS tedesche morte e 335 nostri martiri sparati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. Ma che dire delle proporzioni tra i 1194 (secondo altre fonti 1223) israeliani sterminati dai terroristi di Hamas nella aberrante carneficina del 7 ottobre 2023 più circa 250 rapiti da una parte e i 50.000 e più morti di Gaza ad opera di aviazione e esercito con la stella di Davide dall’altra parte? Calcolatrice alla mano, qui il rapporto dei numeri tra fatto cruento e reazione/rappresaglia sale vertiginosamente: 1 a 35. Finora. Non abbiamo nulla da dire al riguardo? Per Israele – e chi scrive è stato sempre dalla parte di Israele, del suo diritto di esistere come stato senza se e senza ma – tutto è permesso nel nome del “risarcimento” per il genocidio e l’olocausto che correttamente dobbiamo al popolo ebraico? No. Non può essere così. Fermiamo la follia stragista di Benjamin Netanyahu. Deve rispondere dei crimini di guerra di cui sta macchiando indelebilmente l’intera nazione. Anche i milioni di israeliani che protestano giornalmente contro l’operato di quest’altro portatore di morti e di stragi, categoria piuttosto nutrita nella storia umana. Governo israeliano ultraconservatore come ultraconservatrice è l’amministrazione in carica negli Stati Uniti. Ma guarda un po’ che analogie…
La seconda autocitazione per chiudere. Risale, sempre su questo sito, al 5 febbraio 2022. Titolo: “Ucraina, inestricabile matassa”. Siamo 19 giorni prima dell’invasione russa. Giorni in cui si era sospesi tra le speranze che i russi non avrebbero attaccato e il timore che lo facessero. Mosca richiedeva che non solo Kiev non avrebbe mai dovuto fare parte della Nato ma addirittura che Romania e Bulgaria dovevano uscirne. Tipica tattica di avanzare pretese su pretese per rendere giustificabile l’aggressione. Ci siamo inventati in quei giorni un esercizio, una ipotesi di appeasement che impedisse di mettere in moto carri armati e aerei in direzione Ucraina. Riportiamo quella pagina, scritta prima che un numero imprecisato (molte centinaia di migliaia sicuramente) di ucraini e russi fosse sacrificato da Putin sull’altare dell’imperialismo di Mosca:
“Ma ecco, nei punti essenziali, una proposta ragionevole e possibile che potrebbe tenere conto delle esigenze delle parti in causa.
1. L’Ucraina congela formalmente la sua entrata nella Nato per un arco temporale che tranquillizzi Mosca, ad esempio per un decennio.
2. L’Ucraina, invece di entrate nella Nato, si attrezza politicamente, socialmente ed economicamente per entrare nell’Unione Europea che non è e non viene vissuta da Mosca come un’alleanza militare.
3. Bulgaria e Romania restano ovviamente nella Nato.
4. La Russia ritira le armate dai suoi territori a ridosso del confine orientale dell’Ucraina e mette fine alle sue esibizioni muscolari fatte di continue esercitazioni e manovre.
5. La Crimea con Sebastopoli rimane nell’orbita territoriale russa. È dura incassare la legittimazione di un atto illegittimo e violento compiuto nel 2014 però non esistono alternative: senza la Crimea e senza Sebastopoli la Russia diventa insignificante nel Mar Nero e nel Mediterraneo come superpotenza navale e dunque la Russia non vi rinuncerà mai.
6. Le regioni secessioniste filorusse orientali dell’Ucraina – ossia quelle di Donestsk e di Lugansk nel Donbass - diventano il secondo troncone dello Stato federale in cui dovrà trasformarsi l’Ucraina. Uno Stato federale con due entità (una composta dalle regioni occidentali – e filoccidentali – e l’altra dalle regioni orientali filorusse) dotate di amplissima autonomia all’interno della cornice statuale unica. Coesistenza difficilissima ma necessaria. (…)”.
Oggi, dopo tre anni e passa di morti e distruzioni i punti 1-2-3-5 si dimostrano sensati e reggono. Il 4 e il 6 sono inattuali. Sul campo il diritto della forza ha sancito che anche nel XXI secolo si può aggredire una nazione confinante indipendente, riconosciuta dalla comunità internazionale nella sua integrità territoriale, e prendersi ampie porzioni del suo territorio. La “Dottrina Putin” ha vinto. A proposito: ma non vi dà fastidio la Corsica – isola geograficamente italiana: la lingua corsa è comprensibilissima, persino più di tanti altri dialetti italiani – che appartiene alla Francia? Perché non la invadiamo e ce la riprendiamo? Anche Nizza, anche la Savoia. E perché gli spagnoli non si riprendono Gibilterra? E perché gli inglesi non si riprendono tutta l’Irlanda? E perché Israele non si prende Cisgiordania e Gaza, tanto è già a buon punto? Coraggio, in nome della “Dottrina Putin” tutto è possibile. Basta solo sterminare migliaia, centinaia di migliaia, milioni di essere umani, distruggere una nazione (che importanza ha? sono solo danni collaterali) e i sogni di gloria diventano realtà. In alternativa si potrebbero scatenare guerre commerciali e dei dazi a piacimento e ci si potrebbe impossessare di tutte le Groenlandie del mondo. Così si diventa condottieri e si entra da protagonisti nei libri di storia.
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