Dopo 43 anni a Palermo spunta la parola mafia sulla lapide del procuratore Costa

Società | 6 agosto 2023
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Dopo 43 anni Palermo «scopre» che il procuratore Gaetano Costa è stato «proditoriamente ucciso per mano mafiosa». La verità storica delle responsabilità di Cosa nostra finalmente compare nella lapide che ricorda l’assassinio del magistrato il 6 agosto 1980. «Era una reticenza, non so quanto originariamente consapevole», commenta il sindaco Roberto Lagalla che ha partecipato, nell’anniversario del delitto, alla scopertura della nuova lapide alla quale sono intervenuti i vertici del palazzo giustizia, i familiari di Costa e i dirigenti della fondazione intestata al procuratore.
Il figlio Michele accoglie con favore la «correzione» ma sostiene che il processo di recupero della verità e della memoria non può dirsi concluso. Nel caso Costa manca anche una verità giudiziaria, anche se viene collegata, dopo una indagine ritenuta dai familiari lacunosa, alla condizione di solitudine e di sovraesposizione del magistrato. Qualche mese prima di essere assassinato mentre tornava a casa da solo, Costa aveva firmato in prima persona la convalida degli arresti di esponenti della cosca Spatola-Inzerillo-Gambino. I sostituti, tranne uno, si erano rifiutati di avallare l’operazione di polizia. E il procuratore decise di metterci la propria firma solitaria.

Il giudice fu abbattuto da un sicario di Cosa nostra in via Cavour il 6 agosto 1980 mentre da solo stava tornando a casa. 

Oggi, a deporre una corona d'alloro in via Cavour, insieme ai familiari, le più alte cariche civili e militari tra cui: il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia; il prefetto, Maria Teresa Cucinotta; il questore, Leopoldo Laricchia .

«Le strade palermitane sono segnate dalla morte di uomini dello stato - afferma De Lucia - di tutto questo bisogna fare memoria, la memoria serve a continuare a non abbassare la guardia».

 «Il ricordo del procuratore della Repubblica Gaetano Costa, il vice questore Ninni Cassarà e l’agente di polizia Roberto Antiochia non deve essere solo una celebrazione o un evento, ma deve diventare memoria viva da tradurre tutti i giorni in impegno e ricerca della verità. Il loro impegno, la loro passione, la loro dedizione per liberare Italia dalle mafie è un lascito sociale e civile che non possiamo e non dobbiamo disperdere. Un lascito che si deve trasformare in una responsabilità davanti al paese. E che ci riguarda tutti», afferma la senatrice Vincenza Rando, responsabile Legalità del Pd.

Il 6 agosto è una data tristemente significativa anche per la perdita del vicequestore Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia, uccisi nel 1985, sempre  a Palermo.

Anche le morti di Cassarà e Antiochia nascondono misteri e ombre. Cassarà era stato un importante collaboratore della Polizia di Stato, supportando i magistrati Falcone e Borsellino nella lotta contro la Cosa Nostra. A lui si deve il "Rapporto dei 162", fondamentale per il maxi processo dell'86. Antiochia, trasferito a Roma nel 1985, tornò a Palermo per aiutare i suoi ex-colleghi e lavorare con Cassarà.

Il 6 agosto 1985, mentre Cassarà rientrava a casa scortato da due agenti, fu oggetto di un attacco a fuoco da parte di nove uomini armati con fucili AK-47. Antiochia, sceso dall'auto per aprire la portiera a Cassarà, fu colpito dai proiettili e morì di fronte al portone del palazzo. Cassarà fu ferito e spirò tra le braccia della moglie Laura, accorsa in lacrime dopo aver assistito alla scena dal balcone. Dopo la morte di Beppe Montana, Cassarà aveva capito di essere nel mirino della Cosa Nostra e si era nascosto negli uffici della squadra mobile. Tuttavia, il 6 agosto decise di uscire, e fu atteso da un commando di Cosa Nostra. La domanda rimane: chi li aveva avvisati? C'era una talpa? Interrogativi ancora senza risposta.ni dalla sua morte, nessuno è stato condannato per questo omicidio. La sua memoria e la sua lotta contro la mafia restano indelebili nella storia.




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