Brusca: "Così piazzammo il tritolo per Chinnici"

Società | 27 luglio 2023
Condividi su WhatsApp Twitter
"Sono responsabile della strage del dottor Chinnici e chiarisco in quali termini" parola di Giovanni Brusca.

U' Verru di San Giuseppe Jato, oggi uomo libero, poco più di un mese dopo la decisione di "pentirsi", raccontò ai magistrati Guido Lo Forte, procuratore aggiunto a Palermo, ad Alfonso Sabella, sostituto pm a Palermo, a Gabriele Ghelazzi, sostituto procuratore a Firenze e ad Annamaria Palma e Nino Di Matteo sostituti procuratori a Caltanissetta, le fasi preparatorie di attuazione della strage. Una sorta di "minuto per minuto" con grandi dovizie di particolari. Era l'agosto del 1996, 13 anni dopo la strage di via Pipitone Federico, che uno dei macellai di Cosa nostra raccontava con precisione quei momenti.

Fu la mattina del 29 luglio del 1983 quando la morte bussò in via Giuseppe Pipitone Federico. Una strage compiuta con una autobomba, per uccidere il consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici. Erano le otto e cinque minuti quando Rocco Chinnici scese dal terzo piano della sua abitazione per andare in ufficio. Alla finestra la moglie che lo guardò uscire. Sul portone il portiere che lo salutò e vicini all'auto con la quale erano venuti a prenderlo i carabinieri. Chinnici fece pochi passi, si avvicinò all'Alfetta quando l'autobomba che era stata piazzata nei pressi esplose. Morirono il consigliere istruttore, il portiere Stefano Lisacchi e i carabinieri Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta. I corpi divennero solo dei brandelli. La scena che si presentò davanti agli occhi dei soccorritori e degli investigatori fu apocalittica. Sembrò che in quella zona si fosse concentrata una scossa di terremoto. L'autobomba venne piazzata proprio davanti il portone dell'abitazione di Rocco Chinnici, in maniera tale che l'Alfetta su cui doveva salire il magistrato fosse costretta a fermarsi in doppia fila. Alcuni testimoni raccontarono che alcune auto, che si trovavano parcheggiate nella zona, volarono fino al secondo e anche al terzo piano dello stabile, prima di precipitare in basso. Numerosi furono anche i feriti, colpiti dai pezzi di auto e dai calcinacci del palazzo.

A raccontare chi prese la decisione, chi organizzò e chi materialmente fece esplodere l'autobomba è stato Giovanni Brusca, lo stesso Giovanni Brusca che poco meno di nove anni dopo schiacciò un altro pulsante di telecomando a Capaci.

Brusca così racconta ai magistrati: "Un anno prima dell'attentato ricevetti incarico da Salvatore Riina di mettermi a disposizione di Nino Madonia. In un primo tempo era che l'attentato dovesse essere effettuato all'abitazione estiva del magistrato a Salemi, nella zona si erano messi a disposizione del Riina i cugini Salvo. In effetti Nino Salvo fu poi contattato da me e questi mi indicò la villetta che a Salemi era abitata da Chinnici. Sia Ignazio che Nino Salvo era a disposizione 'in tutto' di Riina, erano entrambi uomini d'onore della famiglia di Salemi. In precedenza erano stati vicini a Stefano Bontate, a Salvatore Inerillo e a Gaetano Badalamenti. In un momento successivo erano poi divenute persone a disposizione di Riina e io tenevo i contatti con loro.

Successivamente io feci una serie di sopralluoghi alla villetta assieme a Baldassare di Maggio a Nino Madonia, a Pino Greco 'scarpa'. Questi sopralluoghi vennero effettuati in periodo estivo. Mi resi conto che il dottor Chinnici si trovava in quel periodo alla villetta e quindi in ferie, in quanto lo vidi proprio davanti alla villetta. Ricordo anche che notammo la presenza di una Alfasud color verde e sospettammo si trattasse di un'auto di tutela. Proprio per questo motivo e perché non eravamo del tutto pratici dei luoghi, fatti questi sopralluoghi si decise di non eseguire lì l'azione la quale, secondo il programma, doveva effettuarsi con armi convenzionali e non con l'esplosivo. Chinnici doveva essere ucciso perché stava contrastando con le sue iniziative giudiziarie Cosa nostra e perché con qualche sua iniziativa stava dando fastidio ai Salvo. In questi termini si espresse con me Riina. Poi il progetto dell'attentato rimase sospeso per qualche mese. Fu quando Nino Madonia si presentò portando con sé un telecomando del tipo di quelli utilizzati per le automobiline o per aeromodelli. Il telecomando era costituito da una trasmittente e da un ricevitore, già opportunamente modificato. Nino Madonia, posizionandosi a circa 100-200 metri di distanza, in linea d'aria, dall'abitazione dove mio padre Bernardo trascorreva la sua latitanza, effettuò ripetute prove di funzionamento del telecomando, sempre con esito positivo.

Per il reperimento dell'esplosivo me ne incaricai io. Ne raccolsi tra i 70 e i 90 chili, del tipo granuloso, di colore bianco, come quello usato nelle cave. Lo portai confezionato in due contenitori nel cofano di una Golf di proprietà di Balduccio di Maggio, lo stesso Di Maggio mi batteva la strada con una Fiat Uno di colore bianco e ci incontrammo con Nino Madonia. Con quest'ultimo mi recai in uno scantinato vicino via Ammiraglio Rizzo. All'interno c'era una Fiat 126 verde. Nel cofano anteriore collocammo l'esplosivo dentro due scatole di metallo che aveva procurato Madonia. I contenitori avevano un foro e utilizzando un imbuto immettemmo l'esplosivo. Lo stesso foro servì per posizionare i detonatori. Furono fatte anche delle operazioni per posizionare il filo dell'antenna e per collegare la ricevente collocata sotto il sedile. Le operazioni furono lunghe e terminarono all'imbrunire. Terminato il lavoro all'interno dello scantinato con Antonino Madonia mi recai nell'appartamento di via D'Amelio nella sua disponibilità, dove successivamente fu ritrovato il libro mastro delle estorsioni e che è conosciuto come covo di via D'Amelio. Dopo aver mangiato una pizza andammo a dormire. Oltre alla sveglia telefonica sintonizzammo sveglie tradizionali. Dovevamo alzarci presto per evitare di ingolfarci nel traffico mattutino. Ci alzammo alle 6-6,30. Ci recammo a bordo di una Fiat Uno allo scantinato dove prelevammo la 126, alla guida della quale mi misi io. Ci dirigemmo quindi verso via Pipitone Federico con Nino Madonia che mi batteva la strada. Poco prima di arrivare in via Pipitone Federico fermai la 126 in una traversa poco distante per posizionare il detonatore all'interno di una delle scatole che contenevano l'esplosivo. Sempre seguendo Madonia arrivai davanti l'abitazione del dottor Chinnici dove, contemporaneamente al mio arrivo Calogero Ganci spostò un'auto precedentemente lì parcheggiata. Nel posto lasciato libero da Ganci lasciai la 126. Feci in modo che tra la parte anteriore dell'auto e la macchina posteggiata avanti la stessa 126 restasse maggior spazio possibile per consentire che il dottor Chinnici, uscendo da casa e per salire sull'auto di servizio transitasse proprio davanti la 126. Prima di scendere dalla 126 rimossi una protezione in materiale isolante che avevo collocato in un punto interno alla ricevente dove doveva chiudersi il contatto. Feci poi fuoriuscire l'antenna dallo sportello, in basso; accostai lo sportello senza sbatterlo bensì premendo con le mani ed infine, sfregando il sedere sulla portiera ebbi cura di cancellare le impronte da me lasciate. A questo punto mi diressi a piedi, sempre sulla stessa via Pipitone Federico, verso via Libertà e notai posteggiato, sul lato opposto rispetto a quello in cui avevo lasciato la 126 un camion. A bordo del camion, al posto di guida, c'era Giovan Battista Ferrante. Poco distante c'era la Fiat Uno di Madonia a bordo della quale salii. Dopo un po' arrivarono le auto che dovevano prelevare il dottor Chinnici. Fu a questo punto che Madonia salì sul cassone del camion, portando con sé un sacchetto di plastica che conteneva il telecomando. Madonia era vestito da muratore, con pantaloni corti e canottiera. In quel frangente transitarono Pino Greco 'scarpa' e Vincenzo Puccio con una Simca color azzurrino. Dopo l'esplosione io e Madonia facemmo ritorno in via D'Amelio, dove prelevai la mia auto. Successivamente commentai con mio padre e con Riina che era andato tutto bene".
Finisce qui il racconto di Brusca o meglio un resoconto, fatto con la calma e la pacatezza utilizzata dagli impiegati modello quando relazionano con i rispettivi superiori.

Molti, allora, paragonarono la via Pipitone Federico alla città libanese di Beirut. Fu proprio un libanese. Bou Chebel Ghassan, il primo a dare una indicazione agli investigatori. Lo stesso libanese, pochi giorni prima della strage, aveva detto in maniera confidenziale al vicequestore della criminalpol Tonino De Luca che esponenti di spicco della famiglia Greco stavano preparando un attentato contro una personalità che indagava sui capimafia. Ghassan, però, non aveva saputo indicare né il nome del magistrato, né il luogo dell'attentato. Indicò in due commercianti palermitani i suoi confidenti. In quella occasione la convinzione degli investigatori fu che il libanese sapesse molto più di quanto, invece, aveva raccontato. Allora su Ghassan confluirono diverse accuse, tra cui quella di depistatore. Un personaggio complesso il libanese, poi morto, anni dopo, a Milano. Un giorno, mentre era ancora indicato come informatore della polizia ed era testimone al processo per la strage, si presentò, vestito elegantemente, al centro di Palermo, nel salotto di via Ruggero Settimo. Si sedette ad un tavolino all'aperto di un bar sorseggiando una bibita rimase per quasi tutto il giorno. "Per farmi vedere" disse al suo avvocato, e aggiunse, quasi in segno di sfida: "A me non mi uccide nessuno".

I processi sulla strage sono stati numerosi. L'iter giudiziario iniziato nel 1983 si è concluso dopo quasi vent'anni, il 24 giugno 2002. Il primo processo terminò con la condanna dei fratelli Salvatore e Michele Greco (il senatore e il papa), che furono però assolti nel terzo processo di appello. Il processo Chinnici-bis portò all'identificazione di mandanti ed esecutori. Un processo che si arricchì delle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia: Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Giovan Battista Ferrante, Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca.
Nel 2000 la Corte d'assise di Caltanissetta condannò all'ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella e Vincenzo Galatolo mentre i collaboratori Giovanni Brusca, Giovan Battista Ferrante, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci vennero condannati a diciotto anni di carcere ciascuno.
Successivamente nel 2002 la Corte d'assise d'appello modificò le sentenze di alcuni imputati: vennero assolti Matteo Motisi e Giuseppe Farinella e i collaboratori Anzelmo e Brusca furono condannati a quindici anni anziché i diciotto pattuiti inizialmente. Nel novembre dell'anno seguente la Cassazione confermò la sentenza d'appello della Corte di Assise d'appello di Caltanissetta.
 di Giuseppe Martorana

Ultimi articoli

« Articoli precedenti