Università, come frenare l’emorragia di iscritti e laureati
I dati dicono chiaramente che l’Italia è ben sotto la media Ue per laureati. Anche le iscrizioni all’università sono calate negli ultimi anni. Le cause sono tante e diverse. Le soluzioni passano per uno snodo centrale: rivedere la riforma del 3+2.
I dati
È di questi giorni la notizia secondo cui il governo di Paolo Gentiloni, e in particolare la ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, starebbero progettando interventi per arginare il crollo degli iscritti all’università e dei laureati.
Secondo i dati Ocse, l’Italia ha colmato il divario dalla Unione europea nella percentuale dei diplomati della scuola secondaria superiore, ma non quello dei laureati. Il loro aumento è stato costante negli ultimi anni, ma a un tasso inferiore alla media Ocse, consentendo all’Italia di raggiungere il 25,1 per cento nel 2015, superata, però, dalla Turchia (27,5 per cento). Secondo il Rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario del 2016, circa il 42 per cento abbandona, il 12 per cento in più della media Ue. Anche la percentuale dei diplomati che si iscrive all’università è in Italia pari al 42 per cento, circa 21 punti in meno dell’Ue. In particolare in alcune facoltà, come giurisprudenza, si è poi verificato un crollo delle iscrizioni, solo parzialmente invertito nell’ultimo anno accademico. Eppure, dopo il Messico, l’Italia è il paese Ocse con la minor percentuale di laureati.
Le cause
Ma perché si riducono iscrizioni e laureati? Ci sono fattori dal lato della domanda e dell’offerta. Fra i primi, vi è il mancato salto di qualità tecnologico del nostro sistema produttivo, che resta ancora orientato verso settori a bassa domanda di specializzazione e, al contempo, la difficoltà crescente dei settori manifatturieri tradizionali, anche nei segmenti più elevati, a far fronte alla globalizzazione dei mercati e alla competizione delle economie emergenti che hanno un modello produttivo simile a quello italiano. Ciò spiega la bassa crescita, inferiore alla media Ue, anche in questa fase positiva. Ad aggravare il tutto contribuisce senz’altro l’euro e l’approccio della Bce che punta tutto sulla moneta forte, senza offrire un sostegno ai paesi come l’Italia che ne subiscono le conseguenze competitive negative. Sarebbe stato meglio contrattare le condizioni di accesso all’Unione monetaria prima di entrarci. Si discute di flessibilità, ma ci vorrebbe piuttosto una politica fiscale e industriale europea non protezionistica, ma aggressiva in termini di investimento in ricerca e sviluppo, così da consentire a tutti i paesi membri di realizzare quel mutamento strutturale che è necessario per prendere la cosiddetta “autostrada dello sviluppo”. Come avvertiva il premio Nobel Franco Modigliani prima dell’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca: la moneta forte non è compatibile con l’industria manifatturiera tradizionale. Occorrono grandi investimenti europei per rilanciare lo sviluppo tecnologico e infrastrutturale, sfruttando magari la voglia dei magnati di tutto il mondo di portare in salvo qui i loro enormi capitali. Un sistema di bond europei ben congegnato, finalizzati a un grande progetto di rilancio della crescita e dell’innovazione tecnologica in Europa, potrebbe essere lo strumento finanziario necessario allo scopo, come illustrato in diversi articoli de lavoce.info.
Dal lato dell’offerta, l’attuazione sconclusionata in Italia della riforma del 3+2 ne ha decretato il fallimento, contro le attese degli studenti e delle famiglie che avevano premiato lo sforzo riformatore dell’epoca con un massiccio aumento delle iscrizioni. Una serie di fattori ha trasformato una riforma importante e ben congegnata in un boomerang: mancanza di percorsi pienamente professionalizzanti al triennio, percorsi tortuosi e ripetizione dei programmi fra triennio e biennio, mancato riconoscimento del triennio ai fini dell’accesso al lavoro, con conseguente obbligo per una percentuale troppo alta di studenti a proseguire in massa gli studi: il 54 per cento dei laureati triennali totali, il 63,8 per cento se si esclude la laurea infermieristica.
La totale disorganizzazione e approssimazione è legata anche al rifiuto di mettersi dal punto di vista di studenti, famiglie e imprese. Le scelte di investimento in istruzione non dipendono dai rendimenti attesi dai laureati, che sono comunque una élite, ma dipendono da quelli a priori, che si ottengono moltiplicando quelli attesi per la probabilità di laurearsi. Per alcuni studenti, il divario è significativo e il rendimento tende a ridursi a zero per i più deboli.
Possibili interventi
Che fare? Per una riforma, inizierei proprio dal rilancio del 3+2, a partire da quello che non è stato capito né realizzato. Nei 3 anni, che vanno pienamente riconosciuti parificandoli al titolo pieno, si può fare di più. Allungare gli anni, come è stato fatto costringendo troppi a frequentare il biennio successivo, spesso non significa aumentare le competenze, ma spalmarle su un periodo più lungo, per scarsa frequenza, programmi nozionistici anziché formativi, mancanza di formazione in azienda o nel mondo del lavoro. C’è molto da fare per migliorare la formazione terziaria.
Un’altra chiave è la diversificazione dell’offerta. Il triennio generalista porti alla laurea specialistica, il triennio professionalizzante porti al lavoro subito e solo in casi estremi a percorsi post-lauream di tipo applicativo. Si sta facendo così con il dottorato, con percorsi distinti fra accademici per pochissimi e aziendali per gli altri, in modo da favorire la ricerca applicata in azienda. Così si favorisce anche industria 4.0 e si preparano i giovani ad affrontarla senza paure. (lavoce.info)
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