Tosare la pecora neocapitalista priorità della sinistra europea
Siamo dentro una frattura storica...la gente non è stupida, parliamo di risposte ai suoi bisogni concreti: sicurezza, benessere, futuro dei figli. Non possiamo pensare di congedarci dall'ordine liberale europeo senza pagare prezzi altissimi sul piano economico e sociale. Più queste grandi questioni si pongono, meno i populisti faranno paura, perché non hanno nulla da offrire: la posta in gioco è dannatamente grande per tutti. E' Joschka Fischer, il leader dei Verdi tedeschi che fu ministro degli Esteri dell'ultimo cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder che sintetizza così in un'intervista al Corriere della Sera gli immensi compiti che la sinistra europea è chiamata oggi a fronteggiare. Dobbiamo andare oltre le giaculatorie sui disastri della globalizzazione che sono diventati senso comune e rischiano di divenire alibi al rifiuto di affrontare le questioni reali senza la soluzione delle quali non vi sarà futuro per chi crede in una società più giusta.
La prima scelta riguarda la consapevolezza che non esiste alternativa alla costruzione europea. Il sovranismo, cioè il ritorno agli stati nazionali, è un manifesto della destra e non è accettabile che si affacci pericolosamente anche in settori, seppur minoritari, dello schieramento progressista. Costruire l'Europa significa fare i conti, per la terza volta in poco più di un secolo con il problema della Germania. Ha ragione Fischer quando afferma che l'Unione Europea si regge sul superamento della storica contrapposizione tra Francia e Germania: lo spazio di azione si è ristretto, ma è ancora sufficiente- se l'elettorato francese in aprile non consegnerà la presidenza a madame Le Pen- a costruire le condizioni politico-istituzionali per archiviare definitivamente l'austerità e l'ossessione per il pareggio di bilancio e per ricostruire proposte politiche valide a far fronte ai tre più grandi ed urgenti temi di politica economica e sociale: il governo dei processi di migrazione nell'ottica di una società aperta e multiculturale, il lavoro innanzitutto per le giovani generazioni, la ridefinizione di un welfare adeguato alle trasformazioni intervenute nella struttura produttiva e nel mercato del lavoro. Alla sinistra europea è mancata in questi anni un'idea generale, connotata da un contenuto di futuro (anche di “utopia” nel senso etimologico di disegno di una società perfetta priva dei difetti di quella attuale): è con il tentativo di “tosare la pecora” del capitalismo neo liberista che essa ha supplito all'assenza di un'idea generale di cambiamento ma ciò ha funzionato in modo limitato e solo fino al momento in cui la crisi del capitalismo turbo-finanziario, cominciata nel 2008, non ha spazzato via gli equilibri economici e sociali del “mondo occidentale”.
E' venuto così meno l'ultimo residuo dell'assetto mondiale successivo alla seconda guerra mondiale dopo che il 1989 aveva spazzato via il contraente- concorrente sovietico. E' l'ordine generale del “secolo breve”, secondo la famosa definizione di Hobsbawm, che è stato travolto, tanto che qualche politologo osserva che le politiche internazionali di grandi paesi di cerniera tra Europa ed Asia, come la Russia e la Turchia, sembrano tornate a prima del 1914 oppure, se si vuole, a prima della rivoluzione bolscevica d'ottobre della quale nel 2017 si celebra il centenario. Può quest'idea generale attorno a cui ricomporre la sinistra ed i progressisti essere la lotta alla disuguaglianza? Credo di si, a condizione che non si volga la testa all'indietro, che non si interpretino le società europee attuali con gli strumenti analitici dell'Ottocento. Manca, per esempio, un'aggiornata analisi delle classi: l'intuizione positiva di economisti come Stiglitz della contrapposizione tra l'1% dei supericchi e il 99% degli altri trova un limite nel fatto che all'interno di tale amplissima aggregazione esistono interessi diversi e contrapposti.
Si è fatto tanto parlare del voto di settori della classe operaia americana per Trump, ma non si è riflettuto su quanto il protezionismo del neo eletto presidente statunitense, di cui sono parte integrante il razzismo anti-immigrati e l'iper-nazionalismo dell'America first, rappresenti una rottura rispetto all'approccio tradizionale del neoliberismo americano da Reagan ai due Bush. Per la verità, la separazione elettorale tra classe operaia e sinistra è nota da tempo in Europa: basti pensare al voto del Front National in Francia ed al trasferimento di quote importanti di suffragio della classe lavoratrice italiana prima a Berlusconi (secondo un'inchiesta dell'Ires Cgil nelle elezioni politiche del 2008 il 48% degli operai votò a destra ed alle Europee del 2009 la percentuale salì al 52% ) ed oggi a Grillo. Ha ragione perciò Guido Crainz (La Repubblica 10 febbraio 2017) a parlare di “impotenza se non di catastrofe del riformismo italiano... nella quale crisi radicale della sinistra e crisi radicale della forma partito si intrecciano in modo inestricabile”. Riformismo è parola abusata e polisemantica, tuttavia non saprei trovarne un'altra per definire la tradizione della sinistra italiana che trova le sue radici nei due grandi partiti di massa della sinistra di tradizione marxista, il PCI e il PSI ma anche di settori ampi del pensiero sociale cattolico e della stessa Democrazia Cristiana.
Forse le vere origini del disastro di oggi risiedono nelle occasioni perdute degli anni '80 e nella troppo lunga transizione alla quale né l'Ulivo (che resta l'intuizione più felice) né la fusione a freddo del PD hanno saputo dare risposte risolutive. Bad Godesberg ed Epinay, nomi che parlano alla mia generazione ma nulla dicono ai giovani, non furono operazioni di riverniciatura ma processi politici complessi e dolorosi che ruppero con idee e culture organizzative accettate per decenni. Anche la Bolognina ebbe caratteristiche simili, anche se in parte indeboliti dal ritardo con cui fu celebrata. Nessuno dei tre eventi ebbe però a confrontarsi con la novità che noi stiamo vivendo: una rivoluzione tecnologica, culturale, sociale, perfino demografica, che procede a velocità mai conosciuta e della quale non riusciamo a vedere gli esiti finali. Su questi fenomeni la sinistra in Europa e nel modo si sta interrogando , in un dibattito da cui l'Italia è solo sfiorata. Mentre i testi che guardano il futuro sono scritti in inglese- anche quando gli autori sono italiani- da noi la prospettiva temporale della discussione riguarda al massimo i prossimi tre mesi, quando non si risolve nel quotidiano scambio di insulti e volgarità che ormai contrassegna il discorso pubblico nel nostro paese. Temo sia una strada che non conduce lontano.
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