Terremotati o camorristi, sporcarsi le mani coi problemi degli uomini

Società | 10 dicembre 2017
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Un prete di un paesino dimenticato da tutti che diventa megafono degli emarginati, abbandonati da tutti, costretti a vivere in baracche senza acqua e corrente elettrica. Condizioni infernali a Santa Ninfa, nella Valle del Belice . Nessuno forse se ne sarebbe accorto se lui, 'don terremotò, Antonio Riboldi, non avesse portato fin nei palazzi del potere quella tragedia. Cambiando da quel momento radicalmente la sua vita, da 'prete di sacrestià a prete di strada. E ancora lui: vescovo di Acerra (Napoli), chiamato da Paolo VI a essere Pastore in terra di camorra, 'armatò solo della sua croce, capace di trascinare migliaia e migliaia di persone, a cominciare dai più giovani fin davanti al Castello di Ottaviano (Napoli), segno del potere di Raffaele Cutolo. Una sfida senza violenza al superboss. 

 In tanti oggi lo hanno ricordato. La presidente della Camera, Laura Boldrini, evidenzia il suo ruolo di primo piano di fronte a tanti problemi dell’umanità. La presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi, evidenzia il suo impegno per giustizia e verità. Don Luigi Ciotti sottolinea che ha alzato la voce per gli ultimi. Il sottosegretario Cosimo Ferri lo propone come simbolo anticlan. Antonio Bassolino posta su Fb una foto della marcia anticamorra di Ottaviano insieme con l’allora leader della Cgil, Luciano Lama e il presule. 

 E’ stato immerso nei problemi, si è sporcato le mani in maniera generosa monsignor Antonio Riboldi, don Antonio per tutti. Non era un eroe, voleva essere testimone di una Chiesa viva. Con le sue paure, come tutti gli uomini. Ma con una grande forza. Quella della fede, dei suoi studi, del suo essere orgogliosamente 'rosminianò ma anche sostenuto da una mamma capace di dargli la spinta necessaria per affrontare gli uomini del male. «Quando le confidai che volevo lasciare, che non ce la facevo più mi rispose: 'preferisco che ti ammazzino anziché tu scappì», ebbe modo di raccontare un paio di anni fa. Una denuncia che lo ha portato per anni a vivere sotto scorta. Monsignor Riboldi è morto all’alba, a 94 anni, a Stresa, in Piemonte, presso la casa dei rosminiani dove si trovava dalla scorsa estate. A darne l’annuncio la Curia di Acerra dove è stato vescovo dal '78 al 2000. Dopo una messa, prevista per martedì, nel convento dei monaci rosminiani a Stresa, la salma di monsignor Riboldi è attesa ad Acerra, dove si svolgeranno in settimana i funerali. Non è ancora chiaro se la sepoltura avverrà all’interno della cattedrale, così come da desiderio del presule. 

 Nel 1968, dieci anni dopo essere arrivato a Santa Ninfa, nella Valle del Belice, in Sicilia, fu vicino ai suoi fedeli scossi dal terremoto. In una trasmissione della Rai, 'A tu per tù dell’11 aprile 1977 denunciò senza mezzi termini una situazione vergognosa, figlia dell’abbandono di quel popolo dopo il terremoto. «Come essere prete lì in mezzo? Come si fa a dire a un uomo che per nove anni vive nelle baracche dove ci sono topi e dove piove, Dio è qui e ti ama? Come trasmetterlo questo messaggio d’amore a un uomo che non capisce più bene se vivere è sopravvivere o realizzarsi?», diceva con grande amarezza. Paolo VI nel 1978 lo chiamò alla guida della Diocesi di Acerra. Anni di guerra di camorra, con centinaia e centinaia di morti. Storica la marcia che negli anni '80 portò migliaia di giovani ad Ottaviano, città del capo indiscusso della Nco, Raffaele Cutolo. Riferì di aver incontrato in carcere, il pomeriggio di una domenica di Pasqua il boss Cutolo che rimase fermo sulle sue posizioni. Cercò anche di favorire, laddove possibile, la dissociazione di personaggi che avrebbero potuto rompere col passato di sangue. In poche, semplici parole il bilancio della sua vita. «Ho imparato che è fondamentale andare tra la gente a diffondere il Vangelo, non rassegnarsi mai, non aspettare gli eventi. Ho capito che bisogna sporcarsi le mani con i problemi dell’uomo». 



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