Promuovere l’imprenditorialità, i limiti del decreto “Resto al Sud”

Economia | 24 gennaio 2018
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Il mercato del lavoro, come è noto, in Italia è estremamente problematico. Anche per la concomitanza della crisi economica che ha avuto effetti deleteri soprattutto nei paesi deboli come il nostro, migliaia di giovani, spesso muniti di titoli di studio elevati , non riescono a trovare una occupazione e sono costretti ad emigrare all’estero con gravi costi, finanziari ed umani, per le economie familiari e per l’economia nazionale.

In passato tali problemi si affrontavano con un forte intervento pubblico sostenuto dalla cosiddetta politica del “deficit spending”, ossia attraverso il finanziamento pubblico degli investimenti in deficit, ma oggi tale rimedio non è più praticabile non solo perchè l’esperienza dell’iniziativa pubblica nel campo economico nel nostro paese non è stata sempre positiva ma anche e soprattutto per la dimensione enorme del nostro debito pubblico ed i connessi vincoli a livello europeo.

Nelle condizioni predette l’unica politica praticabile per ridurre se non eliminare la disoccupazione si ritiene sia quella di favorire l’imprenditorialità, politica che, a costi tutto sommato sopportabili per il nostro sistema economico, oltre a ridurre la disoccupazione attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro, avrebbe il vantaggio di aumentare il prodotto interno lordo (pil), ridurre l’incidenza del debito sul pil, aumentare le entrate tributarie dello Stato , ridurre la tassazione dei cittadini, creare con i fondi cosi ottenuti le premesse per migliorare i servizi.

Naturalmente la politica predetta, che potrebbe costituire la base della politica economica del paese, presuppone una serie di provvedimenti capaci di favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese.

Certamente un primo provvedimento necessario sarebbe il sostegno finanziario finalizzato ai giovani che vogliono fare impresa, sostegno del tipo di quello contenuto nel recente decreto del Governo denominato emblematicamente “Resto al Sud”. Ma esso non basterebbe come dimostra l’esperienza del passato e non solo per l’esclusione di alcuni settori produttivi presente nel decreto predetto.

Occorrerebbe agire su almeno altri tre fronti: su quello della comunicazione, su quello amministrativo e su quello della formazione.

Sul fronte della comunicazione bisognerebbe moltiplicare gli sforzi per raggiungere tutti i giovani, compresi quelli che non studiano e non lavorano, e far loro capire che la vecchia sequenza scuola-lavoro-matrimonio-figli-carriera-pensione , per motivi diversi anche sociologici, non è più certa e che quindi è necessario prendere in considerazione altre attività tra le quali quella imprenditoriale.

Sul fronte amministrativo bisognerebbe avviare presso le amministrazioni pubbliche una serie di attività tendenti a rimuovere tutte le criticità, tutte le strozzature, che impediscono o scoraggiano la localizzazione delle imprese specialmente nel centro-sud: l’insicurezza dei territori, le lentezze della giustizia civile, le inefficienze degli enti locali, le carenze della formazione professionale, ecc.

Sul fronte della formazione , partendo dal presupposto che le imprese creano sì lavoro, ricchezza, entrate per lo Stato ma solo se sono bene amministrate e basate su beni e servizi che hanno un mercato , bisognerebbe organizzare, come consiglia anche l’Ue, veri e propri corsi di educazione all’imprenditorialità collocati agli snodi della formazione scolastica ed universitaria per favorire la nascita di imprenditori di successo e ridurre le attuali,frequenti, cessazioni di imprese per carenze di gestione.

Le azioni predette potrebbero essere poste in essere dalla nostra Regione nonostante le criticità del momento ,quindi sarebbero in gran parte rimesse alla nostra iniziativa.



 di Diego Lana

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