Portella della Ginestra, una strage ancora da spiegare
Avrebbe dovuto essere la Festa della libertà ritrovata dopo il ventennio fascista. Invece il primo maggio di settant’anni anni fa, la piana di Portella della Ginestra fu teatro di un eccidio. E il primo grande mistero di Stato. Un enigma con tanti interrogativi rimasti senza verità. Lo speciale di Conquiste del Lavoro
Chissà se a Portella della Ginestra, alle porte di Piana degli Albanesi nell’entroterra di Palermo, lavoratori ed esponenti di Cgil Cisl e Uil che l’1 maggio affolleranno le radure tra i monti Kumeta, Maja e Pelavet, assieme al borbottio del vento che lì tiene costantemente compagnia, avvertiranno l’eco lontana di urla spezzate in gola. E il sordo crepitio di spari. E chissà se percepiranno il senso di smarrimento, il turbamento e lo sconcerto che investì la Sicilia e non solo la Sicilia, per quella che, settant’anni anni fa, il primo maggio 1947, fu la prima strage della neonata Repubblica italiana.
Perché a Portella, quell’1 maggio, la scampagnata e assieme la pacifica
rivendicazione di pane e terra da scavare e lavorare, si mutarono in
tragedia. Quel giorno avrebbe dovuto essere la celebrazione della Festa
ritrovata dopo l’oscurantismo del Ventennio. Fu un eccidio in parte
ancora avvolto nel mistero.
La Festa dei lavoratori, nata alla fine dell’Ottocento negli Usa in
memoria di lotte operaie alle quali, a Chicago, era seguita una feroce
repressione, era diventata dappertutto nel mondo una ricorrenza fissa.
Ma in Italia il fascismo aveva imposto una sua propria narrazione. E la
festività era stata spostata al 21 aprile, “Natale di Roma”.
Quell’1 maggio, dunque, avrebbe dovuto essere la festa del ritorno alla
libertà; dell’allegria collettiva; della vitalità della società che si
lasciava alle spalle la dittatura e il fuoco della guerra. Lì, a
Portella, anche la celebrazione del nuovo protagonismo del mondo rurale
che rivendicava diritti e il proprio ruolo nella nascente società. C’era
fame di lavoro. Di terra. E c’era bisogno di normalità.
Fu un eccidio. E fu un punto di svolta, tra un prima. E un dopo.
In quella vallata tra alture, rilievi e grandi massi, quel giorno
arrivarono in duemila, in prevalenza contadini. Venivano da Piana degli
Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, i paesini della zona. Le
parole d’ordine della mobilitazione sindacale, che s’intrecciava con i
motivi della Festa, erano il no al latifondismo e il sì all’occupazione
delle terre incolte. Ma si festeggiava pure per la vittoria del Blocco
del Popolo alle elezioni che si erano chiuse pochi giorni prima (il 20
aprile) per l’Assemblea regionale siciliana. In quella consultazione le
sinistre erano riuscite a ribaltare il risultato delle elezioni per
l’Assemblea costituente, di un anno prima. La coalizione Psi-Pci aveva
ottenuto 29 rappresentanti su 90 (29,13% dei voti. Alle elezioni
precedenti il Psi aveva registrato il 12,25%, il Pci il 7,91%). La Dc
era crollata al 20,52% (con 21 seggi) contro il 33,62% dell’anno
precedente.
Ma mentre la gente confluiva festosa, agitando bandiere. “Cu ballava, cu cantava, cu accurdava li canzuni. E li tavuli cunzati di nuciddi e di turrùni”,
annoterà undici anni dopo il poeta dialettale siciliano Ignazio
Buttitta. Mentre vecchi e bambini, donne e contadini dalle facce
scavate, arrivavano a piedi o a dorso di mulo, dal monte Pelavet,
indistintamente all’indirizzo della folla, partì una serie ininterrotta
di raffiche di mitra. Una gragnuola di colpi che all’inizio, dalla gente
ignara, fu scambiata per scoppio brioso di mortaretti.
Le raffiche si protrassero per un lunghissimo, infinito quarto d’ora. E
sul terreno restarono undici morti (nove adulti e due bambini) e una
trentina di feriti tre dei quali moriranno in seguito per le lesioni
riportate. Fu una carneficina. E anche il primo grande mistero di Stato.
E il primo dei segreti di Stato apposti nella Repubblica che prendeva
forma.
Quattro mesi dopo si scoprirà che a sparare erano stati gli uomini della
banda di Salvatore Giuliano, il leggendario bandito di Montelepre,
dall’agosto 1945 colonnello dell’Evis, l’Esercito volontario, braccio
armato del Movimento indipendentista siciliano. Ma i tanti interrogativi
dietro a quell’eccidio, il movente, chi lo abbia ordinato e perché; e
chi e perché abbia coperto le indagini con verità di comodo, restano
ancora oggi quesiti senza risposta. Un enigma irrisolto. Privo, dopo
settant’anni, di una definitiva certezza giudiziaria. Nonostante le
tante ipotesi avanzate: dall’intreccio reazionario-mafioso agli
interessi dei baroni alle paure dei latifondisti alle spinte della
destra monarchica. Ancora, alle trame dei Servizi, alle logiche
internazionali di potenza. Alla complicità di alti livelli delle
istituzioni. E resta, la nebulosa, nonostante le tante pubblicazioni che
storici, giornalisti e cineasti, hanno dedicato nel tempo alla vicenda.
A cominciare dall’inchiesta de l’Europeo, del 16 luglio 1950, a
firma del cronista Tommaso Besozzi. “Di sicuro c’è solo che è morto”,
l’incipit del reportage. Che ha fatto storia. E che ha riportato alla
memoria in questi giorni l’editrice milanese Milieu.
Lo scoop di Besozzi, a un’opinione pubblica incredula, svelava che i
Carabinieri e l’allora ministro degli Interni, il siciliano di
Caltagirone Mario Scelba, sulla morte del bandito, avevano mentito.
Giuliano non era stato affatto ucciso a Castelvetrano (Trapani) nella
notte del 5 luglio del 1950 a seguito di un conflitto a fuoco con i
militi dell’Arma, come si era cercato di far credere. A ucciderlo era
stato un membro della sua stessa banda, Gaspare Pisciotta. Il suo
braccio destro. Ma su chi e perché armò la mano di Pisciotta. E sul
perché della messinscena di Castelvetrano, restano in piedi solo
congetture. E quel buio dello sfondo che farà dire a Sciascia, in Nero su nero
(1979), che tutto era avvolto “nella menzogna”. E che “è da allora che
l’Italia è un paese senza verità”. Qualche anno dopo, anche Pisciotta
morirà avvelenato all’Ucciardone dalla stricnina che ingoiò con una
tazza di caffè. Insomma, morti misteriose appresso a morti misteriose.
Morti che allungano ombre non solo su quegli anni. E che pencolano
ancora, appese alla storia del Paese come tessere di quel mosaico
incompiuto che è e resta la strage di Portella.
Umberto Ginestra
Conquiste del Lavoro, 1 maggio 2017 pag 4 – pag 5
#1MaggioPortella
PORTELLA DELLA GINESTRA (testo in italiano)
Nel piano della Portella chiusa in mezzo a due montagne
c’è una roccia sopra l’erba per memoria ai compagni
Alla destra nella roccia al tempo dei Fasci
un apostolo ci parlava donde proviene tutta la ricchezza.
E da allora fino a oggi a Portella della Ginestra
quando viene il primo di maggio i compagni fanno festa…
E Giuliano lo sapeva che era la festa dei poveri,
una bella giornata di sole dopo tanto piovere,
chi ballava, chi cantava, chi accordava le canzoni
e le tavole apparecchiate con nocciole e torroni!
Ogni asta di bandiera era zappa, braccia e mani
era terra seminata, pane caldo, forno e grano
La speranza di un domani che fa del mondo una famiglia
la vedevano ormai vicino già contavano le miglia,
l’oratore di quel giorno era Jacopo Schirò,
disse appena: «Viva il primo maggio», e rimase senza parola.
Dal monte della Pizzuta che l’altura più vicina
Giuliano con la sua banda scatenò la carneficina.
A tappeto e a ventaglio
mitragliavano la gente
come una falce che miete
con il fuoco tra i denti
C’è chi piange spaventato,
c’è chi scappa e grida aiuto,
c’è chi alza le braccia
invocando protezione.
E le madri col fiatone
con il fiato – ma senza più fiato
– Figlio mio, (hai) corpo e braccia
un groviglio di piombo!
Dopo un quarto d’ora di quell’inferno, vita, morte e passione
i briganti se ne andarono senza più munizioni
rimasero in mezzo al sangue e all’erba del piano
venti morti, poveretti, che volevano un mondo umano.
E nell’erba li piansero madri e padri inginocchiati
che baciandoli gli lavarono il viso con le loro lacrime.
Epifania Barbato accanto al figlio a terra morto dice:
«Ai poveri persino qua fanno la guerra…»
Invece Margherita La Glisceri che era lì coi suoi cinque figli
era stata colpita a morte, e nel ventre, aveva il sesto figlio…
Da quel giorno succede che a Portella, chi ci torna dopo tanti anni vede i morti in carne e ossa, testa, volti e gambe,
vivere ancora, ancora vivi e può sentire una voce fra cielo e terra che grida: O giustizia, quando arrivi?
O giustizia quando arrivi?!!
Ignazio Buttitta
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