Perchè la vittoria di Macron in Francia ha salvato la pelle all'Europa

Politica | 10 maggio 2017
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Diverse sono le chiavi di lettura della vittoria del trentanovenne “enaista” (l'Ecole Nationale d'Administration forma l'élite politica e l'alta burocratica transalpina) Emmanuel Macron alle elezioni presidenziali francesi di domenica 7 maggio. Proverò ad esaminare le due, a mio avviso, più rilevanti. La prima è la vicenda internazionale nella quale si colloca il risultato. Il successo del leader di En Marche ha impedito si saldasse il terzo vertice del triangolo d'acciaio che doveva segnare la fine del progetto europeo di costruire una grande area geo-politica capace di competere a livello mondiale. La Brexit prima, l'elezione di Donald Trump in un secondo momento avrebbero dovuto essere seguite da una vittoria di Marine Le Pen, candidata ultra-nazionalista ed antieuropea. 

Non un “complotto”(la sola parola mi provoca l'orticaria), ma un lucido disegno politico che punta – sepolti definitivamente l'ultima coda del lunghissimo dopoguerra e il settantennio di pace continentale– a ridefinire un assetto del mondo in cui l'Europa non si costituisca come soggetto politico ed economico unitario ma si consumi in un lungo declino di piccoli e medi stati nazionali. Incapaci nel giro di un paio di qualche lustro anche di mantenere quel modello sociale che rappresenta il loro contributo più importante alla contemporaneità, essi diventerebbero oggetto e non soggetto delle grandi opzioni politiche che decideranno il destino del pianeta. Si pensi all'attivismo russo a favore del candidato “isolazionista” nelle elezioni americane, all'improvvisa scomparsa politica di Camerun in Gran Bretagna, all'evoluzione di Erdogan verso una politica neo-ottomana che lo allontana rapidamente dall'Europa. Il 7 maggio parigino è sufficiente a sconfiggere tale disegno? Certamente no, ma mette una zeppa che rallenta l'onda finora crescente dei populismi. Altre prove ci attendono: innanzitutto le stesse elezioni dell'Assemblea nazionale francese a giugno che saranno decisive non solo per sapere se Macron conquisterà una maggioranza parlamentare ma anche per appurare se ci sarà un successo elettorale della destra estrema e se il 20% di consensi di Melenchon si trasformerà in un'aggregazione politica a sinistra dello sconquassato Partito Socialista. 

Quasi contemporaneamente si svolgeranno le elezioni nel Regno Unito volute da Teresa May per consolidare la sua leadership. Sullo sfondo l'appuntamento più importante: le elezioni tedesche di settembre con la sfida di Martin Schultz, nuovo capo dei Socialdemocratici, all'egemonia decennale della signora Merkel. Prima o poi, infine, si voterà anche in Italia, anche se non è dato ancora sapere con quale legge elettorale e quali alleanze. Nel giro di poco più di sei mesi, insomma, si ridefinirà l'assetto politico del vecchio continente e si capirà se esisteranno o meno le condizioni per il rilancio di un'Europa che rilanci il suo ruolo e modifichi radicalmente le disastrose politiche economiche e sociali del decennio della grande recessione. La seconda chiave di lettura è interna al sistema politico francese: la quinta repubblica si avvia al tramonto e Macron rappresenta una novità non ancora pienamente decifrabile. Più di un commentatore ha sottolineato la differenza tra questo risultato e la “solidarité republicaine” che portò alla sconfitta di Le Pen padre nel confronto con Chirac. Questa volta un numero assai maggiore di elettori ha confermato il voto a destra nel ballottaggio a segnalare il disagio profondo che attraversa la società d'oltralpe e che trova nella destra nazionalista e xenofoba risposte semplificate alla sua crisi d'identità. Alain Touraine, uno dei padri della sociologia francese, ha ricordato che “la forza di Macron sono le città, ma il Nord , il Centro, il Sud e l'Est del paese sono per il Front N.ational. La Francia si sente isolata e minacciata dalla globalizzazione”. 

Un paese diviso, indebolito economicamente, spaventato dalla diffusione delle diseguaglianze in cui oltre il 40% dell'elettorato vota per candidati dichiaratamente sovranisti. Sul suo Blog Jean Luc Melenchon, intervistato sulle prime dieci cose che avrebbe fatto se fosse stato eletto presidente, ha citato -oltre all'assemblea costituente ed alla condivisione (partage) della ricchezza – la denuncia dei trattati europei, l'uscita dalla Nato, il protezionismo economico, condendo in salsa populista temi antichi del radicalismo di sinistra. Qui sta la ragione dell'asprezza della polemica contro Macron con la decisione di astenersi, seguita da una parte non secondaria del suo elettorato. Toni che non sono nuovi nella storia della sinistra: alcuni degli argomenti utilizzati contro il giovane presidente, additato come “banchiere di Rothschild” hanno echi distanti ma riconoscibili nell'accusa di socialfascismo con la quale i comunisti francesi bollarono i socialisti alla fine degli anni Venti dello scorso secolo. Con i risultati ben noti a chi abbia letto qualche manuale di storia contemporanea. Il leader sessantacinquenne di France Insoumise non è certo una novità nel panorama politico francese. Uscito dal PS nel 2008, aveva fondato un partito della sinistra sul modello della Linke tedesca e si era alleato con i comunisti alle elezioni europee. Alle presidenziali del 2012 aveva ottenuto il 11,1% che ha quasi raddoppiato al primo turno del 2017. Il problema più grande riguarda lo sbriciolamento della sinistra francese. Il Il PS si è suicidato candidando Benoit Hamon, esponente della sinistra socialista di un certo prestigio ma inadeguato a competere a sinistra con Melenchon e verso il centro con l'astro nascente Macron. La vicenda dei socialisti si annuncia assai travagliata e dagli esiti non scontati: intanto ne ha già fatto le spese il grande sconfitto alle primarie socialiste, l'ex primo ministro Manuel Valls che, annunciata la morte del partito, ha nel giro di ventiquattrore trovato sbarrate le porte della candidatura nel movimento En Marche. Altri leaders, per esempio Martine Aubry e Segoulene Royal, ancora non si esprimono. La mia impressione è che nel breve volgere di tempo da qui alle elezioni legislative si giocherà il destino della sinistra riformista, ma si scioglieranno anche molti degli equivoci e dei dubbi che circondano la figura del nuovo presidente. 

Il sistema francese, fondato sui due grandi poli dei repubblicani di matrice gaullista e dei socialisti prevedeva la possibilità di coabitazione, cioè la contemporanea presenza di un presidente di un colore all'Eliseo e di un primo ministro di colore opposto al Palais Matignon. L'equilibrio, delicato ma saldo, del regime semi-presidenziale era garantito dalla forza delle due aggregazioni partitiche. Questo presidente non ha un partito e dovrà rapidamente trovare il modo per ottenere almeno 290 deputati senza i quali gli sarebbe impossibile governare. Una delle strade per conseguire questo risultato è la demolizione di entrambe le forze politiche che hanno fatto da pilastro alla quinta repubblica. E' uno degli scenari possibili; ma potrebbe reggere di fronte ad un'estrema destra che si consolidasse a percentuali superiori al 20%, facendo leva sul disagio sociale e che avrebbe tutto l'interesse a dar enfasi all'opposizione in Parlamento. E che succederà a sinistra? L'agonia del PS porterà alla nascita di nuovi soggetti politici? Riuscirà Melenchon a mantenere in giugno il consenso conquistato alle primarie? Sono tutte domande oggi senza risposta, ma nel giro di neanche due mesi una serie di nodi si scioglieranno e si comprenderà anche quale sarà l'asse delle politiche economiche e sociali del giovane presidente. Insomma, dopo l'inno alla gioia della notte del Louvre e gli evviva per lo scampato pericolo, sarà la dura realtà dei problemi a misurare la dimensione di statista e la capacità di governo di Emmanuel Macron, che resta un personaggio per molti versi ancora da scoprire.

 di Franco Garufi

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