La nuova questione meridionale che il governo ignora

Società | 27 giugno 2018
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La pubblicazione quasi contemporanea di alcune analisi statistiche permette di fare il punto su quanto sta avvenendo nell'economia e nella società del Mezzogiorno d'Italia e, per quanto ci riguarda più da vicino, della Sicilia. Le stime preliminari dell'Istat sul Pil e sull'occupazione a livello territoriale testimoniano la crescita del Nord e del Nord-Ovest con tassi superiori alla media nazionale (1,5%) pari all'1,8% mentre la circoscrizione meridionale cresce al ritmo più lento dell'1,4% su base annua. 

A distanza di ventiquattrore la pubblicazione delle statistiche sulla povertà mostra un notevole incremento della povertà assoluta che ha superato a livello nazionale i 5 milioni di individui coinvolti e che si accentua in modo ancor più drammatico nel Sud ed in Sicilia. Le famiglie in condizioni di povertà assoluta hanno raggiunto nella media nazionale del 2017 il 6,9% a fronte del 6,3% dell'anno precedente, ma questa cifra si impenna al 10,3% nel Mezzogiorno e cresce ancora in Sicilia che è penultima seguita solo dalla Calabria. La povertà assoluta è concentrata tra i giovani, in special modo nelle famiglie la cui persona di riferimento ha età inferiore a 35 anni e tra i nuclei familiari che hanno uno o più componenti stranieri. 

Questi dati seguono a distanza di qualche giorno il bollettino sulle economie regionali della Banca d'Italia che mostra per la Sicilia una lievissima ripresa del Pil, ma in un quadro generale di arretratezza rispetto alle aree più forti del paese. In sintesi, tutti gli studi concordano sul fatto che la ripresa sta agendo in modo differenziato tra le varie aree geografiche del paese, allargando i divari territoriali e che si continua ad assistere ad un aumento delle diseguaglianze sociali che configurano una vera e propria emergenza che riguarda 1.778.000 famiglie che non riescono a far fronte alle esigenze fondamentali del vivere quotidiano: consumare due pasti caldi al giorno, vestirsi, pagare l'affitto di casa, mandare i figli a scuola. Una percentuale assai alta di tali nuclei familiari è concentrata nell'area meridionale. Ciò suona conferma che tra gli errori del governo Gentiloni, non secondario è stato il ritardo e la scarsa dotazione finanziaria con cui venne introdotto uno strumento importante ed innovativo come il REI (reddito d'inclusione). Alla situazione così delineata di aumento delle diseguaglianze, crescita insufficiente (e comunque non tale da colmare il divario con le aree più forti), debolezza delle istituzioni locali si aggiunge la realtà di un crescente sovraccarico delle famiglie meridionali per sostenere i costi dell'istruzione universitaria di propri figli. 

Lo studio presentato il 25 giugno dalla Svimez sulla fuga degli studenti dalle università del Sud d'Italia segnala che uno studente meridionale su quattro emigra verso le regioni settentrionali per arrivare alla laurea. Dei 685.000 ragazzi e ragazze del Sud iscritti ad un corso di laurea nell'anno 2016-17 sono stati 175.000 ad andarsene dalla terra di origine e la stragrande maggioranza, circa 153.000, sono andati a studiare in università dell'Italia centrale o settentrionale. Assai rari sono invece i trasferimenti in senso inverso: appena 18.000 studenti dell'Italia centrale e settentrionale (appena il 2%) vengono a studiare al Sud. L'istituto di via di Porta Pinciana, opportunamente, fa i conti della minor spesa per investimenti e consumi che ciò comporta per il sistema meridionale, ma il dato più grave è che spesso si tratta di un biglietto di sola andata con il conseguente depauperamento del capitale umano delle nostre regioni. 

Mettendo in fila, uno dietro l'altro, questi numeri non è difficile constatare che il Meridione esce dalla crisi molto più povero, debole e diseguale di come vi entrò ormai dieci anni or sono. Ciò si è tradotto nella crisi della rappresentanza sociale e politica che è alle radici del terremoto elettorale dello scorso 4 marzo. Il fenomeno è complesso e va ulteriormente indagato, ma non v'è dubbio che è nel Sud oggi il ventre debole di un'Italia che sembra non saper ritrovare la strada della crescita sostenibile e della coesione territoriale e che ha visto crescere in modo intollerabile l'ingiustizia sociale. Eppure, la sensazione è che la questione meridionale, che andrebbe riproposta come questione nazionale decisiva per una nuova e diversa fase di sviluppo sostenibile sia praticamente scomparsa all'orizzonte.

 Il fatto che la rilevazioni Istat segnalino nel Sud un aumento del 4,4% del valore aggiunto dell'industria e del 3,4% nel settore che raggruppa commercio, pubblici esercizi trasporti e telecomunicazioni, ma anche qualche positività nel malandato settore delle costruzioni significa che esiste un'imprenditoria meridionale che, nonostante tutto, ha resistito. Questo, che è un bene, si accompagna però ad un mercato del lavoro completamente destabilizzato, non solo per la larghissima presenza del lavoro nero e grigio ma anche per l'imposizione di condizioni di lavoro iugulatorie ai dipendenti, privi ormai di diritti e costretti ad accettare condizioni salariali intollerabili. A ciò si aggiunge la diffusione di un mercato del lavoro quasi schiavistico di cui sono vittime gli extra comunitari, specie nelle grandi campagne di raccolta agricola, alla faccia della “pacchia” su cui si fonda la becera propaganda leghista. In questo contesto, insieme alla questione dei diritti del lavoro, va affrontata certamente anche la questione del reddito, ma ponendola in termini corretti. 

Mai come oggi è necessario abbandonare la demagogia delle soluzioni assistenziali per rimettere mano ad un'idea di sviluppo sostenibile che metta al centro il Mezzogiorno ed i suoi rapporti con il Mediterraneo e l'Europa e che sia capace di creare nuova occupazione stabile. Lo capiranno coloro che avevano costruito ingenti fortune elettorali sul reddito di cittadinanza per approdare infine alla riedizione dei lavori socialmente utili?

 di Franco Garufi

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