L'Unione europea compie sessant'anni e li dimostra tutti
L'Unione Europea com'è oggi non funziona ed appare urgente realizzare cambiamenti profondi. Tuttavia meno che mai ci serve il ritorno alla sovranità degli stati nazionali: non abbiamo bisogno di meno Europa ma di un'Europa diversa. Ha fatto bene Romano Prodi, nel discorso tenuto in occasione della conferenza straordinaria dei Parlamenti dell'Unione Europea, a rivendicare al processo di unificazione europea il merito di aver assicurato “per la prima volta dalla caduta dell'impero romano” pace e sviluppo a tre generazioni. Nato nel 1951, appartengo alla prima generazione italiana che ha conosciuto la guerra solo attraverso le letture, le testimonianze visive e i racconti dei padri (il mio, come tanti altri suoi coetanei, partecipò a due conflitti e passò sei anni della sua giovinezza prigioniero degli inglesi in Kenia).
Per questo non nutro dubbi sulla validità dell'Europa e non ho alcuna simpatia verso i “sovranisti” che illudono se stessi e chi li ascolta affermando che la soluzione dei problemi drammatici lasciati dall'intreccio tra globalizzazione e crisi economica mondiale nel superamento delle istituzioni europee. I sei paesi che il 25 marzo 1957 nella sala del Campidoglio in Roma firmarono i trattati istitutivi delle Comunità europee (Comunità Economica Europea ed Euratom) dopo essersi sanguinosamente combattuti fino al 1945, traducevano in quel momento in realtà le aspirazioni alla pace ed alla collaborazione che erano sembrate utopiche ancor all'epoca del manifesto di Ventotene, elaborato al confino fascista da da Spinelli, Rossi, Colorni e dalla Hirschmann tra il 1941 e il 1944. Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo ed Olanda non erano tutta l'Europa, ma certamente ne rappresentavano una parte importante. Il risultato di Roma era stato preparato da una serie di appuntamenti, tra cui la conferenza di Messina del giugno 1955, fortemente voluta dall'allora ministro degli esteri italiano Gaetano Martino.
Nella capitale italiana si stabilì di dar vita ad un mercato comune, all'unione doganale, e furono individuate le politiche da gestire insieme. Era già fallita invece la costruzione di una difesa militare comune attraverso la CED (Comunità europea di Difesa), fortemente sollecitata dall'amministrazione statunitense e voluta in un primo tempo dalla Francia, ma mai ratificata dai Parlamento italiano e bocciata dall'Assemblea nazionale francese nell'agosto 1954. La mediazione alla base dei Trattati spostava il perno della costruzione europea sulle politiche economiche ampliando quanto già realizzato nel 1951 con la CECA (Comunità Economica Europea del Carbone e dell'Acciaio). Si decise l'istituzione di un Parlamento Europeo, ma solo nel 1979 esso sarebbe stato eletto per la prima volta direttamente dai cittadini europei ed avrebbe cominciato ad acquisire un ruolo significativo nell'architettura delle istituzioni comunitarie. Dalla CEE alla creazione dell'Unione Europea nel 1992 il percorso è stato lungo e segnato da cambiamenti straordinari: il “trentennio dorato” (come lo definì Hobsbawm) segnò la più rapida fase di sviluppo dell'economia e delle società europee e consentì la costruzione di sistemi di diritti sociali e di welfare definiti su base nazionali, ma tutti segnati dalla scelta di fondo dell'universalismo nelle tutele. Si pensi, per esempio a cosa rappresentarono per l'Italia lo Statuto dei lavoratori nel maggio 1970, la riforma delle pensioni del 1971 e l'istituzione del servizio sanitario nazionale nel 1978. Giustamente Prodi evidenzia come risultato dell'Europa politica l'esistenza di un “sistema di welfare unico al mondo “ e lo paragona con l'ancor oggi debole tutela sociale esistente negli USA.
In trentacinque anni venne meno la divisione del mondo stabilita dai vincitori della seconda guerra mondiale: scompare l'Unione Sovietica, e ciò apre la strada alla riunificazione tedesca nell'ottobre 1990. Cambia l'immagine stessa dell'Europa. Fino a quella data il processo di allargamento aveva riguardato in tempi successivi la Danimarca e l'area anglofona (nel 1973 entrano Irlanda e Regno Unito), i paesi dell'Europa meridionali usciti dalle dittature di destra (nel '81 aderisce la Grecia, nel 1986 il Portogallo e la Spagna) ed ancora l'area scandinava (Finlandia e Svezia nel 1985) ed un paese alla frontiera Est come l'Austria, insomma quella che veniva definita Europa Occidentale ed era caratterizzata al suo interno da una forbice economica e sociale certamente ampia (tanto che nel 1979 vengono introdotte le politiche di coesione) ma nel quadro di scelte istituzionali comuni. Il trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), che apre la strada all'adozione dell'euro, era rivolto ad economie che sono tra le più avanzate del pianeta e si trovavano quasi tutte negli anni Novanta in una congiuntura economica positiva. Al volgere del xx secolo,invece, è nella difficoltà a reggere l'onda d'urto dell'ingresso dei paesi dell'ex Comecon che le istituzioni comunitarie rivelano la loro inadeguatezza. L'arrivo di 11 paesi che provengono dall'ex blocco sovietico, tra cui un grande e complesso paese come la Polonia, con economia e strutture sociali e politiche in fase di impetuosa mutazione non poteva non sconvolgere i fragili equilibri dell'Unione. E' infatti con il 2004 che comincia il peggioramento della performance delle istituzioni europee, enfatizzato dalla crisi globale, prima finanziaria e poi dell' economia reale, e dalla scelta sciagurata di affrontare i problemi del crescente debito pubblico dei paesi membri con le politiche neo-liberiste del pareggio di bilancio e della messa in discussione dei diritti del lavoro.
Qui si colloca il punto di svolta: le burocrazie di Bruxelles da un lato hanno ormai assunto un ruolo di regolatori di tanti e diversi aspetti della vita quotidiana che la gran parte delle persone vivono in termini di peggioramento delle proprie condizioni di vita materiale, dall'altro vengono viste come un'arcigna casta lontana e chiusa ai bisogni reali. Questa è l'Europa stanca, debole e vecchia che ha consentito ai populismi, che non sono nati oggi ed hanno radici nelle culture del radicalismo antiparlamentare (prevalentemente ma non solo di destra) e del nazionalismo, di proporsi come risposta alla crisi di democrazia e di senso che attraversa il nostro Continente. Una difficoltà che è comune a tutte le forze politiche tradizionali e che ha trovato nella Brexit, proposta da un governo conservatore ma non sufficientemente combattuta dai laburisti in crisi d'identità, di scaricare su Bruxelles responsabilità e problemi che hanno cause assai più complesse. Sbaglia, a mio avviso, chi individua nella Brexit, l'inizio della rivincita degli stati nazionali che sono stati l'istituzione che ha consentito all'Europa trecento anni di egemonia politica, economica e culturale sul mondo intero. Essi rappresentano la nostra storia comune, con i suoi trionfi ed i suoi orrori, ma sono irrimediabilmente il passato. Il futuro appartiene alle grandi aggregazioni confederative di dimensione continentale o sub-continentale: non solo la Cina e gli Usa ma anche l'India e la stessa Russia. La qualità dell'avvenire, la vita che vivranno i nostri figli e nipoti dipenderà in gran parte dalla capacità dell'Europa di proporre se stessa come grande realtà caratterizzata dalle libertà democratiche, dall'inclusione sociale, dalla giustizia sociale.
Questa fu l'intuizione fondamentale di quanti, intellettuali e politici, pensarono l'Europa come Federazione fondata sulla pace e sulla democrazia, dopo l'epoca dei totalitarismi. Rispetto a tale obiettivo le istituzioni europee appaiono oggi carenti e lontane dal modo di sentire di chi vive in paesi che dieci anni di crisi hanno profondamente indebolito e reso più disuguali sul terreno economico, sociale e culturale. I diritti civili e sociali e l'accoglienza dei migranti sono le grandi discriminanti per i quali non sono accettabili compromessi: può stare nell'Europa che vogliamo un governo come quello ungherese che comprime gli spazi di democrazia ed alza muri contro gli immigrati? Si parla in questi giorni di Europa a due velocità come soluzione per tenere insieme la traballante architettura europea: il tema è complesso e si presta a diverse e contrapposte interpretazioni.
E' certo tuttavia che, se non vogliamo si riaffaccino gli spettri del passato, non ci sono alternative all' Unione, ma essa deve riallacciare il filo del dialogo con i suoi cittadini e offrire loro quella speranza nel futuro individuale e collettivo che oggi sembra essere venuta meno.
Ultimi articoli
- La nuova Cortina
di ferro grande campo
di battaglia - La riforma agraria che mancò gli obiettivi / 2
- Mattarella, leggi
di svolta dall'incontro
con il Pci - Mattarella fermato
per le aperture al Pci - La legalità vero antidoto per la cultura mafiosa
- Natale, un po' di rabbia
e tanta speranza
nella cesta degli auguri - Lotte e sconfitte
nelle campagne siciliane
al tempo di Ovazza / 1 - La legge bavaglio imbriglia l'informazione
- Perché l’Occidente si autorinnega
- Ovazza, storia di un tecnico
prestato alla politica