L'Italia ignora il difficile mestiere di mamma lavoratrice

Società | 14 gennaio 2018
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A seguito della nascita di un figlio, per le donne ritornare al lavoro sta diventando sempre più complicato in tutte le regioni d’Italia, anche in quelle dove l’occupazione femminile è maggiore rispetto alla media nazionale. Il nodo cruciale è rappresentato dalla difficoltà di riuscire a conciliare la carriera e la cura della famiglia nei primi anni di vita di un bambino tra costi alti da sostenere per i nidi, gli stipendi bassi e i nonni che, quando presenti, sono spesso ancora in servizio e non possono badare ai loro nipoti.

In Italia le dimissioni volontarie per i genitori con figli fino a 3 anni detà sono state 37.738. Secondo i dati forniti dallIspettorato nazionale del lavoro che prendono in esame l’anno 2016, le neo mamme che si sono licenziate sono state 29.879. Appena 5.261 sono stati i passaggi ad altra azienda, mentre 24.618 mamme hanno esposto delle motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino, tra i quali i costi elevati e la mancanza di nidi, o la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Per gli uomini la situazione è ribaltata: su 7.859 papà che hanno lasciato il lavoro, 5.609 sono stati i passaggi ad altra azienda e solo gli altri hanno deciso di farlo per difficoltà familiari. In testa alla classifica troviamo la Lombardia con 8.850 dimissioni convalidate: 3.757 sono dovute al passaggio ad altra azienda e 5.093 sono legate a motivi familiari. Tra le 6.767 donne prese in esame, 3.105 si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e l’elevata incidenza dei costi di assistenza del nascituro. In Veneto, seconda regione per numero di dimissioni, 5.008 in totale, 3.658 riguardano le mamme e 1.350 i papà. Nello specifico, 770 genitori hanno dichiarato che in tale scelta è stata preminente la mancata concessione del part time e la modifica dei turni di lavoro. Quasi a pari merito nel Rapporto dellIspettorato nazionale del Lavoro, nonostante le enormi differenze sociali e lavorative dei due territori, sono il Lazio con 3.616 dimissioni volontarie e lEmilia Romagna con 3.609. In questi casi hanno scelto di perdere il lavoro perché non riuscivano a conciliarlo con la famiglia rispettivamente 1.519 e 1.243 donne. 

Il numero più alto di dimissioni, prendendo in esame i dati aggregati, è stato registrato al Nord, 23.117 per l’esattezza, mentre al Centro sono state 8.562 e al Sud 6.059. I cambi di azienda non incidono così tanto: al Nord sono stati circa 8.000, al Sud sono appena 350. Fanalino di coda nella classifica è la Calabria: nonostante il numero di abitanti, le dimissioni infatti sono state appena 517.

Prendendo in esame la qualifica delle donne che lasciano il lavoro si nota che meno si guadagna più si è soli e costretti alle dimissioni. Ecco che tra le operaie e le impiegate si arriva a 28.102 convalide, mentre quelle di dirigenti e quadri sono state 680. Con uno stipendio che a stento raggiunge i mille euro, se ne spendono almeno 500 tra tata e nido e dei 500 che avanzano bisogna sottrarre altresì costi base come pannolini e prodotti per ligiene. Partendo da questi assunti sono in molte a pensare che non valga la pena stare almeno 7 ore lontano da casa per guadagnare così poco e non dedicarsi alle cure del figlio. Tutto ciò rappresenta un circolo vizioso perché dimettendosi si perdono anche alcuni benefici come il Bonus baby sitter.

Il nostro mercato del lavoro - hanno dichiarato la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti e la responsabile Politiche di genere della Cgil nazionale Loredana Taddei- soffre storicamente di una bassa partecipazione delle donne, con divari territoriali enormi. E anche l'aumento dell'occupazione femminile degli ultimi mesi - sottolineano - non può non essere letto indagando la qualità di questa occupazione, speso debole e precaria, come dimostrano anche le percentuali ancora altissime di part time involontario”. Secondo quanto sostenuto dalle due dirigenti sindacali la crescita delle dimissioni delle lavoratrici madri mettono in luce il perdurare di fenomeni discriminatori e rimarcano il fatto che i costi della maternità ricadono ancora prevalentemente sulle lavoratrici, specie se sole o a basso reddito. Esistono, infine, difficoltà delle politiche per la conciliazione, della necessità di mettere in campo un maggiore welfare pubblico, ma anche di declinare il tema della responsabilità sociale di impresa affrontando la maternità non come una questione privata o come un costo da comprimere, ma come un valore sociale.

Le cronache ci raccontano tante storie di lavoratori costretti a licenziarsi per accudire i figli o per l’impossibilità di riuscire a conciliare lavoro e famiglia. Sono tutti racconti dai contorni complessi. “Tornato dopo il congedo di sei mesi è stato l’inferno. Non ho trovato la mia scrivania, mi hanno mobbizzato, messo nell’elenco delle persone per la cassa integrazione. Un inferno”. Questo è l’incipit della testimonianza, riportata dal quotidiano La Stampa, di Alessandro Moscatelli, 47 anni, origini torinesi ed ex dipendente di una grossa società pubblicitaria di Milano. Ex perché ha deciso di lasciare il lavoro e andarsene dall’Italia. Ha trovato, infatti, una nuova occupazione in Australia. In Italia, secondo quanto denunciano tanti lavoratori, infatti, viene prestata poca attenzione per la genitorialità.

 di Melania Federico

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