L’inventore dei Beati Paoli stakanovista per necessità
“L’uomo che inventò i Beati Paoli”,
Sellerio 288 pagine, 13 euro
Gabriello Montemagno mima il tono del feuilleton popolare per presentarci William Galt ossia Luigi Natoli (1857-1941), l’autore de “I Beati Paoli”, il romanzo popolare più letto dai palermitani di scoglio e di mare, pubblicato a puntate sul “Giornale di Sicilia” ( maggio 1909- gennaio 1910). “L’uomo che inventò i Beati Paoli” (Sellerio 2017, 228 pagine, 13 euro), è la prima biografia dell’autore dei “Beati Paoli”. Il che suona almeno curioso. Della trama e dei personaggi della trilogia i palermitani sanno tutto ma nulla o quasi sanno di Natoli. Delle sue origini “umili”, della dura gavetta della formazione, della sua discontinua e travagliata carriera scolastica. Politicamente osteggiata, molto erratica «come un capocomico di compagnia », aggravata dal fatto che in due matrimoni il Natoli ebbe una dozzina di figli.
Montemagno sulla base di documenti di famiglia e delle conversazioni con i figli ci restituisce una vivida storia personale economicamente labile, che costringeva Natoli a lavorare al limite delle sue forze. Ha pubblicato trentuno romanzi e più di trecento articoli storici, ai quali vanno aggiunti quarantanove volumi di storia per la scuola, una quindicina di testi teatrali e poi saggi letterari e di cultura varia. Insomma non si dava tregua. Nel 1888, quando approda come professore di lettere al liceo Garibaldi si lega a Giuseppe Pitré e intesse rapporti anche epistolari con numerosi intellettuali, artisti, scrittori come Capuana. Mignosi, De Maria, De Roberto, Cesareo. Repubblicano, mazziniano di formazione, era autonomista sulla linea di Napoleone Colajanni. Montemagno, sulla scorta di un bel profilo di Massimo Ganci, mette in evidenza la formazione laica , la forte sensibilità sociale insieme ad un carattere schietto e indipendente che gli provoca non pochi guai.
Lo scrive per allontanare il sospetto , avanzato nel corso di una vuota polemica, che Natoli simpatizzasse per i Beati Paoli, dai mafiosi eletti a loro padrini. Per due anni, prima di arrivare a Palermo, tra l’86 e l’88, lavora a Roma come caporedattore del “Capitan Fracassa”, allacciando importanti relazioni culturali. La passione per il giornalismo non lo abbandonerà mai e in qualche modo si consolida con l’uscita a puntate dei “Beati Paoli” come feuilleton del “Giornale di Sicilia” che, pur pagando poco, fu un sostegno di Natoli. Nei giornali il feuilleton allora era, ma lo è ancora, un taglio basso su tutte le colonne della pagina, spesso la prima. Era lo spazio per la grande letteratura popolare a puntate (Balzac, Dickens, Roth). Scrittori, grandi comunicatori, che in ogni pezzo dovevano tessere la trama e creare la suspense per la continuazione.
A dettare la struttura narrativa con continui colpi di scena è la natura “periodica” del feuilleton che costringe gli scrittori ad un ritmo in accelerazione anche in previsione di tempi narrativi più larghi. In questo senso Natoli è stato un grandissimo scrittore in grado di immaginare con sapienza i tempi narrativi dell’insieme. È questo il segreto di chi scriveva feuilleton e del miracolo attrattivo dei “Beati Paoli”, ma anche di un altro romanzo “Alla guerra”, apparso a puntate sul “ Giornale di Sicilia” tra l’ottobre 1914 e l’ottobre 1915 e di recente meritoriamente ripubblicato (I buoni cugini editori, 2014). È il primo libro in assoluto che narra in diretta la Grande Guerra, prima ancora del libro di Barbusse. Natoli lo scrive sotto l’emozione della morte al fronte del figlio Clodomiro.
Insieme a lui in guerra c’erano ben altri sei fratelli Natoli, dalle storie personali avventurose, ideologicamente diverse - Montemagno le ricostruisce con minuzia- che in trincea guadagnarono onore e subirono ferite. Se “Alla guerra” è stato dimenticato, non lo sono mai stati “ I Beati Paoli” (riedito da Sellerio), tradotto in America vivo l’autore (Montemagno vi dedica uno spassoso capitolo), in francese, in tedesco. Da Little Italy a Palermo, lo leggono tutti. Nei Grandi Palazzi, all’Albergheria o all’Ucciardone dove – narra Montemagno - ospiti di riguardo in infermeria, ogni sera, si facevano inscenare il romanzo da un detenuto che lo sapeva a memoria. Imposero quei “pezzi da novanta” dei giorni in più di carcere al narratore, che aveva finito il periodo di detenzione, per sapere come andava a finire.
Una trama fitta di amori, tradimenti, cose “tinte” calata nella Palermo settecentesca, ricostruita con precisione filologica nelle sue vanelle, strade, palazzi e catoi, negli anni in cui, i Borboni si alternarono con gli Asburgo. Bastardi gentiluomini e purosangue malacarne, populace infida ma anche popolo generoso e battagliero e poi gli incappucciati, i giustizieri i Beati Paoli difensori dei deboli. Lampi di giustizia imposta dagli incappucciati - simili ad altre sette più o meno vere - che si prendevano cura di riassestare momentaneamente il mondo con il trionfo a volte apparente del buono sul cattivo.
Natoli nostro Balzac? «D’accordo - disse Sciascia - non era Balzac, ma era uno storico, con le carte in regola, uno scrittore efficace, un narratore tecnicamente accorto, uno scrittore buono se dopo tanti anni e ”dopo aver bevuto in tante altre cantine”, prendendo in mano un suo libro e cominciando a leggerlo ecco che ci troviamo costretti a finirlo». Per Montemagno questo giudizio non dà piena giustizia a Luigi Natoli. L’idea che l’autore insegue, rafforza e sviluppa nel suo libro è che Natoli vada ammirato «al di là di ogni espediente narrativo. Perché a Natoli interessava parlare ai suoi lettori della storia della nostra gente, per cercare di ispirare loro un orgoglio di popolo compromesso che ha attraversato varie vicissitudini storiche; a lui interessava parlare dello spirito di eguaglianza e di giustizia, del rifiuto di ogni superstizione, dell’amore per la libertà». (La Repubblica Palermo)
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