Ius soli, una strada per l’integrazione e il riscatto dell'Italia

Politica | 20 giugno 2017
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Lo spirito della riforma

Il 15 giugno sono scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge per l’introduzione dello ius soli (modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91), approdata al Senato dopo quasi due anni dall’approvazione alla Camera, nel settembre 2015. La questione è indubbiamente complessa e interseca diverse materie, ma è innanzitutto una questione identitaria: con la definizione di chi è “italiano” si delimita la comunità, generando differenze fra “cittadini” e “stranieri”.

I promotori della riforma sostengono che sia anacronistico non concedere la cittadinanza a bambini nati in Italia, che hanno frequentato le scuole nel nostro paese e molto spesso non hanno mai visitato quello dei propri genitori. L’attuale modello, infatti, risale al periodo in cui l’Italia era un paese di emigranti, pensato per mantenere un legame con i figli degli italiani che si trasferivano in Argentina, Brasile o Australia. Oggi, indubbiamente, le dinamiche demografiche sono cambiate.

I dubbi degli scettici sono invece legati principalmente al possibile effetto della normativa sui fenomeni migratori. Si teme, insomma, che questa “concessione” possa attrarre nuovi immigrati. In secondo luogo, molti ritengono che il diritto “del suolo” non sia un criterio sufficiente per concedere la cittadinanza, che invece dovrebbe considerare fattori culturali, linguistici e, appunto, di sangue.

Del resto, anche in Europa la situazione è tutt’altro che omogenea: ogni paese, in base alla propria storia (e ai movimenti demografici e migratori), ha elaborato un proprio modello cercando di equilibrare ius soli e ius sanguinis. Alcuni presentano uno ius soli quasi automatico, legato alla regolarità del soggiorno dei genitori. In Francia, la cittadinanza può essere richiesta dai genitori a 13 anni, se il bambino ha vissuto stabilmente sul territorio per almeno 5 anni. Oltremanica, ha la cittadinanza chi nasce nel Regno Unito da un genitore legalmente «stabilito» (cioè con un permesso di soggiorno senza termine). In Germania, vige uno ius soli automatico se un genitore risiede regolarmente da almeno 8 anni. Oltre all’Italia, solo Austria e Danimarca non prevedono il meccanismo dell’acquisizione per i nati sul territorio nazionale.

L’impatto (potenziale)

In base al testo in discussione al Senato, possiamo stimare il numero dei potenziali beneficiari della riforma. Con l’introduzione dello ius soli temperato, potrebbero acquisire la cittadinanza italiana i bambini e ragazzi nati in Italia dal 1999 a oggi (ovvero ancora minorenni) i cui genitori sono in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra-UE) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini UE). Secondo una recente indagine Istat, circa il 65 per cento delle madri straniere risiede nel nostro paese da più di cinque anni. Se riportiamo questa percentuale al numero dei nati stranieri negli ultimi 17 anni (976mila) e ipotizziamo che nessuno di loro abbia lasciato l’Italia, si stima che i nati stranieri figli di genitori residenti da almeno 5 anni siano 635mila.

Secondo lo ius culturae, ottengono il diritto alla cittadinanza i minori stranieri, nati in Italia o arrivati entro il compimento del dodicesimo anno di età, qualora abbiano frequentato regolarmente un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionalePartendo dai dati del ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2015-2016 (secondo cui gli alunni stranieri nati all’estero erano il 58,7 per cento degli alunni stranieri complessivi, ovvero 478mila), possiamo stimare 166mila alunni nati all’estero che abbiano già completato cinque anni di scuola in Italia.

Sommando i potenziali beneficiari per ius soli e ius culturae si ottengono 800mila potenziali beneficiari immediati (circa l’80 per cento del milione di minori stranieri residenti al 2016), a cui vanno aggiunti i potenziali beneficiari che ogni anno acquisiranno il diritto (nuovi nati o coloro che completeranno i cinque anni di scuola), una cifra compresa tra 55 e 62mila.

La legge rappresenta dunque il riconoscimento di un cambiamento in corso nel nostro paese da oltre vent’anni: da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Si tratta del riconoscimento formale di una condizione già in atto: questi ragazzi non sono “immigrati”, si sentono italiani a tutti gli effetti e, in molti casi, non hanno mai vissuto nel paese dei propri genitori. Peraltro, i timori dovuti al pericolo terrorismo o alla criminalità non sono oggettivamente legati alla cittadinanza: anche negando il diritto, non avremo allontanato i potenziali terroristi o criminali. Al contrario, il riconoscimento della cittadinanza può rappresentare un segnale positivo sulla strada dell’integrazione, che è la più efficace arma contro la radicalizzazione.

Tuttavia, la riforma appare ancora parziale perché si occupa solo dei minori stranieri e lascia invariata la procedura di naturalizzazione degli adulti – che possono fare richiesta dopo dieci anni di residenza legale, che diventano almeno dodici prima di ottenere una risposta. Anche in questo caso il nostro paese è molto più rigido rispetto ad altri stati europei: in Belgio e Olanda si parla di 5 anni; in Germania 8; in Spagna 10, ridotti a 2 per le ex colonie di lingua ispanica. (info.lavoce)

Tabella 1 – La situazione in Europa



 di Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin

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