Imperfetto e autentico Eskandarian, inseguendo il sogno americano
In un mirabile – mica tutti gli scrittori funzionano sulla carta stampata – articolo di qualche anno fa firmato da Sandro Veronesi sul “Corriere della Sera” (un pezzo sulla grandezza di Gurganus, per semplificare brutalmente) c’era spazio per un fulmineo ma pregno catalogo di one-book writers statunitensi, gente toccata dalla grazia per un solo volume: Harper Lee, Scott Heim, Leif Enger, William Gherardie, Edwuard Dahlberg. Di questa lista potrebbe far parte tranquillamente anche John Kennedy Toole (il suo spassoso e profondo “Una banda di idioti” è edito in Italia da Marcos y Marcos) e il tempo spalancherà le porte a un romanzo pubblicato in Italia dall’editore Giunti, “Golden Years” (216 pagine, 17 euro) di Ali Eskandarian, scrittore che non ha avuto il tempo di essere accostato a gente come Junot Diaz, Jhumpa Lahiri, Gary Shteyngart, Chimamanda Ngozi Adichie, nuovi americani che stanno indicando qualche direzione importante in seno alla letteratura statunitense.
Il romanzo di Eskandarian, efficacemente tradotto da Roberto Serrai, è stato pubblicato postumo, inizialmente in Olanda, dopo la morte violenta dell’autore, un giovane musicista rock americano, figlio di iraniani, cresciuto prima a Teheran, poi in Germania e, a partire dagli anni Novanta, negli Stati Uniti, ucciso trentacinquenne nel 2013. Ci sono molti elementi autobiografici, c’è l’autodistruzione, difficili ricordi iraniani, il sogno a stelle e strisce e vari angoli d’America, ci sono droghe di ogni tipo e amplessi nei loft nelle sue pagine febbrili e crude, che ardono di desiderio e sono un inno alla giovinezza, all’odiosamata New York e alla vita rock’n roll, vetta ancora da scalare dal punto di vista musicale, ma pienamente attuata nella quotidianità.
La specificità di “Golden Years”? Si tratta di un rabbioso diario on the road – che solo superficialmente può paragonarsi ai classici beat, ma ha retaggi più contemporanei – a tratti una specie di psichedelico flusso di coscienza, che arriva direttamente da un giovane uomo («devo ridurmi a trovare lavori senza senso in città senza senso») degli anni Dieci del Duemila («… se guardi quel decennio depravato con gli occhi sbagliati puoi rimanere cieco»). Un racconto ai margini, che lo stesso autore non esitava a definire, in attesa di eventuale smentita, il “grande romanzo iraniano-americano”. Magari imperfetto e impellente, ma autentico e onesto. Ecco perché in questa sede nessuno intende smentirlo.
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