Il mondo dei dinosauri e una strega per caso dominano le sale

Cultura | 23 giugno 2018
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Jurassic Word – Il regno distrutto (2018) di Juan Antonio Bayona. Prepariamoci a vivere con i dinosauri. Le mostruose creature primordiali riportate in vita attraverso il recupero del DNA, rivivono per la quinta volta sullo schermo nell’ormai infinito (e fortunato) sequel, che ha tutta l’aria di non aver ancora esaurito la sua spinta creativa e commerciale, mosso dall’industria hollywoodiana pronta a sfruttarne tutte le residue potenzialità. Pietosamente sfuggiti al tentativo del solito mercante senza scrupoli (che dopo averle recuperate a fini fittiziamente umanitarie organizza un’asta milionaria per venderle a miliardari in cerca d’emozioni mozzafiato) liberati da una graziosa bimbetta, i mastodonti preistorici vagheranno per il mondo, preannunciando il sesto episodio dove (almeno si spera) si compia l’armaggedon, lo scontro definitivo tra l’improbabile revival del mondo ancestrale e quello ipertecnologico contemporaneo. Cliché ormai usurato, ma stereotipo ancora funzionante, “Jurassic Word - Il regno distrutto” dello spagnolo Juan Antonio Bayona (specialista di videoclip e spot pubblicitari), abbonda in catastrofismi (qui il vulcano di Isla Nublar sta per esplodere e sommergere l’isola ormai abbandonata da tre anni, per questo la spedizione “umanitaria” - inconsapevole della vera missione segreta - parte per il salvataggio ) e non lesina sbalorditivi effetti speciali. La formula ormai logora - dove alla cupidigia degli esseri umani (il male) si contrappone l’umanesimo vincente d’una pattuglia d’impavidi portatori del bene moderni “argonauti” - richiama alla mente l’eterna contrapposizione manichea bene-male, tipica degli archetipi e degli eterni stereotipi che dalla forma ancora in fieri di rappresentazione dei primi peplum (i film storico-mitologici, gloria del cinema italiano dei primi anni ’10 del XX secolo, ripresi con discreta fortuna tra gli anni ’50 e primi anni ’60, di Ercole e Maciste per intenderci) hanno attraversato l’ultracentenaria storia del cinema giungendo come lontana filiazione fino ai nostri giorni, nelle forme sbalorditive che il cinema contemporaneo socio-antropologicamente modificato riesce a produrre per un pubblico del XXI secolo, anch’esso radicalmente cambiato. Per quanto qui il ritorno degli eroi non avviene più nel mondo ordinario, ma nel mondo straordinario e terribile di “Jurassic Word”. A Steven Spielberg, “genio” del ritorno delle spaventose creature, il ruolo di produttore esecutivo.

Mary e il fiore della strega (2018) di Hiromasa Yonebayashi. Allievo dello  Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, il regista giapponese (dopo un lungo periodo di apprendistato autore di  “Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento”) torna alla regia con un nuovo avvincente cartone “stregato”. Protagonista Mary Smith, una ragazzina di dieci anni dai folti capelli rossi (tipici delle streghe) che scopre casualmente un misterioso e bellissimo fiore azzurro luminoso. Sarà trasportata con una bizzarra scopa volante in una università dei maghi (Harry Potter docet), dove sotto l’apparente insegnamento della magia bianca si nascondono in realtà terribili esperimenti di “metamorfosi”. Divenuta “strega per un giorno” la piccola Mary riporterà alla normalità tutte le povere vittime innocenti e scoprirà il segreto di una sua vecchia prozia. L’antico mito della metamorfosi, comune a molte culture, riemerge in tutta la sua terribilità (anche il cinema horror americano lo ha ampiamente trattato). Chi ha detto che le streghe sono cattive? La piccola Mary agisce solo per il bene. 

 di Franco La Magna

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