Fantozzi l'antesignano, tragicomico leader profeta del jobs act
Quante facce o quante maschere ha indossato il genovese Paolo Villaggio nella sua vita da perenne ragazzo ed eterno scontento. Con lui, nato il 30 dicembre 1932 da padre siciliano e madre veneziana, ma ligure fino al midollo nel suo mix di cinismo e romanticismo anarcoide, morto oggi a Roma, si chiude una pagina della vita italiana, perché Villaggio non è stato solo attore, scrittore, autore e istrione tra radio e tv; era la cattiva coscienza dell’Italia degli anni '70 e, a suo modo, lo è rimasto anche negli anni del suo «autunno da patriarca».
Nato nella borghesia facoltosa e moderna dell’Italia del dopoguerra, del suo essere bambino ricordava l’obice scagliato da una nave inglese che colpì per errore il suo quartiere mettendolo, mano nella mano al fratello gemello Piero, di fronte all’orrore della morte. Dall’adolescenza emergono invece i ricordi di una giovinezza matta e spensieratissima, tra sbadati studi in legge, incursioni nel cabaret e nel teatro amatoriale, lunghe vacanze con gli amici, primo fra tutti con Fabrizio De André che lo spinse anche a suonare e cantare. Del resto il suo esordio nel mondo dello spettacolo coincide con il testo della ballata «Re Carlo tornava dalla guerra» che fece notare De André anche per l’accusa di turpiloquio scagliata da un procuratore siciliano. Non erano ancora i tempi di «Marinella» e i due non fecero altre prove in comune pur restando amici per sempre.
All’inizio degli anni '60 Villaggio va a lavorare in fabbrica (una delle maggiori aziende europee di impiantistica), ma qui capiscono in fretta il soggetto e lo mettono a organizzare le feste aziendali. Intanto ha fatto il suo tirocinio da palcoscenico con la compagnia goliardica Baistrocchi in cui si esibisce in esilaranti numeri da cabaret che gli serviranno da modello per le sue maschere diventate poi celebri: il travet timido, l’imbonitore aggressivo, l’eterno sconfitto. Da qui alla notorietà il salto alla fine si rivelerà breve, sia grazie alle buone compagnie frequentate al «Derby» di Milano, sia per merito di Maurizio Costanzo che lo porta a Roma, lo fa debuttare a teatro, lo impone alla radio. Da lì, complice il desiderio di rinnovamento della tv di stato, Villaggio scala in fretta i gradini della celebrità: «Quelli della domenica» (dove debuttano il Professor Kranz e il nevrotico Fracchia), «Canzonissima», "Gran Varietà» alla radio. Sono gli ultimi momenti degli anni '60 che Villaggio fa suoi insieme ad ormai buoni compagni di strada come Enrico Vaime, Cochi e Renato, Gianni Agus, Ric e Gian. Nel '68 debutta al cinema con il misconosciuto «Eat it!».
Ma saranno gli anni '70 a far passare Villaggio alla storia: prima con l’invenzione letteraria del ragionier Ugo Fantozzi (un travolgente successo in libreria) e poi con la sua versione cinematografica che si concretizza nel 1974 per la regia di Luciano Salce e la produzione Rizzoli. Saranno alla fine 10 i capitoli della saga che porteranno il Ragioniere fino in Paradiso e oltre. Nel frattempo Villaggio è diventato un «nome" cinematografico alternando incursioni d’autore (con Monicelli per «Brancaleone alla crociate», con Gassman che ne fa la sua spalla preferita, con Pupi Avati all’esordio, e con Nanni Loy) e grandi successi di cassetta che si ripeteranno per tutto il decennio successivo, quasi sempre con la complicità di Salce, Sergio Corbucci, Neri Parenti. La sua comicità mischia ironia surreale e satira reale in un costante passare da Cechov alle comiche del muto, dall’osservazione sociale al teatro dell’assurdo. Se ne accorgeranno tardivamente i critici, ma non saranno in ritardo Federico Fellini che gli dedicherà il suo ultimo film, «La voce della luna» in coppia con Benigni, Giorgio Strehler che lo porta a teatro con «L'avaro», Ermanno Olmi ("La leggenda del bosco vecchio» da Buzzati), Lina Wertmuller ("Io speriamo che me la cavo"), il veterano Monicelli ("Cari fottutissimi amici"), Gabriele Salvatores ("Denti").
Sono per Villaggio gli anni '90, intristiti dai problemi fisici e da una delusione per l’Italia e l’utopia socialista infranta che lo porterà fino a uno sconsolato endorsement a Beppe Grillo ("un conterraneo per cui ho provato vera invidia"). Dimenticato dal cinema, Villaggio si rifugia nella pubblicistica, sempre accompagnata da buon successo di vendite, nel teatro e nella critica pubblica in cui mantiene sguardo acuto sulla società che cambia. Nella vita artistica non gli sono però mancati gli onori: Gillo Pontecorvo gli conferì nel 1992 un inatteso e rivoluzionario Leone d’oro alla carriera (il primo mai dato a un comico); due anni prima Fellini gli aveva fatto vincere il David di Donatello come miglior attore (ne avrebbe vinto un secondo alla carriera nel 2009); infine ecco il Pardo d’oro di Locarno nel 2000. Amava provocare e dare scandalo; ogni intervista si traduceva in un esilarante combattimento verbale, ogni apparizione in una sorpresa anche per le fogge personalissime che aveva scelto con una predilezione per i caftani bianchi e i berretti orientali.
E’ stato un padre difficile per i suoi due figli e un marito affettuoso con la moglie Maura che per 60 anni ha diviso con lui la vita. Ma alla fine è stato soprattutto quel Fantozzi di cui il critico Paolo Mereghetti scriveva «Fantozzi, come la maggioranza dell’umanità, non ha talento. E lo sa. Non si batte né per vincere né per perdere ma per sopravvivere. E questo gli permette di essere indistruttibile. La gente lo vede, ci si riconosce, ne ride, si sente meglio e continua a comportarsi come Fantozzi». Ieri come oggi.
Fantozzi l'antesignano, tragicomico leader profeta del jobs act
«Tornare al cinema con Fantozzi mi fa comodo: sento di entrare tra i grandi. Mi spiego: Fellini, Monicelli, Moravia non avevano paura di morire, sapevano che comunque sarebbero sopravvissuti attraverso i loro film. A questo punto mi rassereno, forse non devo più temere la morte». Paolo Villaggio aveva commentato così il ritorno in sala due anni fa, restaurati in occasione del quarantennale, dei mitici film di Fantozzi, quelli con il ragionier Ugo alla guida della Bianchina, impiegato senza qualità della Megaditta, sposato con la sfiorita Pina, padre della mostruosa Mariangela, corteggiatore senza fortuna della collega panterona signorina Silvani.
«Ho sempre pensato di non farcela», aveva raccontato l'attore, comico, scrittore e sceneggiatore genovese. «Da giovanissimo con Fabrizio (De Andrè, ndr) avevamo il sospetto che non avremmo sfondato. Io poi vedevo i film di Totò in televisione, quelli di Stanlio e Ollio, non parliamo di Alberto Sordi, ma non pensavo addirittura di arrivare ad avere l’onore di essere restaurato come un grande e tornare per la porta principale del cinema. Devo ammettere che da un paio d’anni ho la consapevolezza di avercela fatta. E sa perché? Mi incontrano per strada e mi fanno le feste, mi abbracciano, soprattutto le donne. E mi dicono 'grazie perché con Fantozzi ci hai insegnato molte cose prima di tutto ad accettarcì».
Dal 1975, nascita del ragionier Ugo, ad oggi i tempi sono cambiati, in peggio lavorativamente e sindacalmente parlando, aveva sottolineato Villaggio, mentre la considerazione che abbiamo maturato del personaggio è migliorata proporzionalmente. "Fantozzi all’inizio ci faceva ridere, ma veniva considerato un vicino di casa cretino, poi lentamente noi italiani ci siamo scoperti, proprio come lui, almeno per l’80% incapaci di essere competitivi e per una buona parte purtroppo anche dei falliti rispetto alle proprie aspirazioni. In tempi di esodati e di Jobs Act, Fantozzi è un tragicomico leader. Un bel paradosso».
Come nacque Fantozzi? «La parte comica venne fuori in un certo senso come eredità di un mio soggiorno a Londra da cameriere e poi successivamente come cabarettista in navi da crociera, quella più tragica dal mio lavoro alla Cosider come impiegato. Fantozzi coglieva il lato tragico dell’italiano medio, talmente tragico da far ridere. In quell'Italia così competitiva di quegli anni sembrava un pagliaccio, un clown da circo, quasi un estraneo, mentre ora ci si può riconoscere tutti, persino con gratitudine».
Villaggio ha scritto una trentina di libri, otto solo su Fantozzi che al cinema fu rappresentato in 10 pellicole, a partire da quella prima, datata 1975, diretta da Luciano Salce, su soggetto dello stesso Villaggio e sceneggiatura di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Salce e Villaggio.
«Ho avuto una vita molto felice e me la sono costruita con accanimento scientifico. Ho visto un Tognazzi meraviglioso, straordinario, un Pozzetto comico buonissimo, ho conosciuto Monicelli, la persona più onesta mai incontrata. Ne ho fatte di cotte e di crude. Posso finire qui - aveva concluso - e dire che ho vissuto».
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