Ecco il «tesoro nascosto» delle aziende sequestrate alla mafia

Economia | 15 settembre 2017
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«Come si può deliberare senza conoscere?». Il problema – nel suo “Conoscere per deliberare - Prediche inutili” – lo poneva nel 1964 Luigi Einaudi, padre nobile della Repubblica. Non sembra porselo lo Stato che, pur senza conoscerne esattamente numeri e stato dell’arte, continua a promettere di deliberare sui beni sottratti alle mafie. Un settore che, si veda il caso Saguto in Sicilia, è attraversato da mille tensioni. Se per case e terreni i numeri sono in alto mare, figuriamoci per le aziende sequestrate alla criminalità organizzata, che sono ancora attive e che, dunque, sono potenzialmente in grado di restare sul mercato o, giocoforza, essere destinare a fallire.

 Le notizie sono esclusiva competenza di ogni singolo Tribunale che in realtà non ha una visione globale perché nessuno ha una cancelleria strutturata per raccogliere e condividere i dati. Ad aprire gli occhi sul problema (senza la cui conoscenza è paradossale deliberare o solo anche prometterlo) è l’associazione internazionale Mca (Management of confiscated assets), alla cui presidenza c’è l’amministratore giudiziario italiano Domenico Posca. Tra giugno e luglio ha messo in fila i dati, supplendo a quello che dovrebbe essere un ruolo analitico dello Stato. A giugno, nel corso di un convegno organizzato con Ernst & Young, ha condiviso il censimento effettuato da Infocamere, a seguito dell’input della stessa Mca e della Commissione anagrafe tributaria della Camera. Il primo censimento Le imprese sequestrate identificate nel Registro imprese erano, a fine 2016, 17.838. Di queste 10.329 attive, con 199.082 addetti e oltre 21 miliardi di valore della produzione cumulato. Il 20% opera nel commercio al dettaglio, il 15% nelle costruzioni, il 10% nell’immobiliare, il 9% nel manifatturiero e a seguire le altre. Il 68% è costituito da società di capitali, il 13% da società di persone, il resto da imprese individuali o altre forme. La maggior parte (9.502 aziende) ha al massimo 19 addetti e sono appena 51 quelle con più di 500 addetti. All’interno del numero si trovano anche le 771 aziende definitivamente confiscate e destinate alla gestione da parte dell’Agenzia nazionale (Anbsc) e le 1.550 attualmente gestite dallo Stato. Se è presumibile che le prime siano tutte attive, tra le seconde lo è una su sette. Sorprendente la distribuzione geografica. Se il primo posto della Campania (1.912 aziende) non desta meraviglia, il terzo della Lombardia (1.502) dietro al Lazio (1.669) e davanti alla Sicilia (1.462) e il quinto dell’Emilia Romagna (601) davanti a Calabria (583) e Puglia (512) rappresentano la cartina di tornasole della pervasività mafiosa nelle economie di ogni angolo d’Italia, a partire dal Nord. 

Il secondo censimento In assenza di statistiche con il sigillo dello Stato, qualche magistrato, senza comunque avere alcun parametro di confronto, ha sostenuto che le aziende attive sono in numero inferiore. Ecco allora la scrematura – presentata a luglio nel corso di un convegno della Cgil – effettuata tenendo conto di 4 condizioni di operatività: pagamento (anche parziale o tardato) del diritto annuo, bilancio consegnato nel 2016, addetti dichiarati e almeno una pratica successiva al 1° gennaio 2016. Le imprese sequestrate attive diventano così 2.758, gran parte delle quali in Sicilia e Lombardia e a seguire Campania e Lazio. La maggior parte (562 imprese) hanno tra 2 e 5 addetti. «Sono però convinto – dichiara Posca al Sole 24 Ore – che la statistica più corretta sia la prima anche perché moltissime aziende non hanno i bilanci approvati da 2 o 3 anni o non hanno versato i diritti camerali. Resta l’assurdità di non riuscire ad avere un censimento completo e attendibile». Ma il compito – viene spontaneo chiedersi – non dovrebbe spettare all’Agenzia nazionale? Se si guarda la legge istitutiva, tra gli altri, ha il compito acquisire i dati relativi ai beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata nel corso dei procedimenti penali e di prevenzione, acquisire le informazioni relative allo stato dei procedimenti di sequestro e confisca; verificare lo stato dei beni nei medesimi procedimenti, accertare consistenza, destinazione e utilizzo dei beni, programmare l’assegnazione e la destinazione dei beni confiscati, analizzare i dati acquisiti e le criticità relative alla fase di assegnazione e destinazione.

 L’Agenzia – che dal 28 aprile ha un nuovo direttore nel prefetto Ennio Mario Sodano al quale non può essere certo mosso alcun appunto per le incongruenze passate e che anzi sta tentando di dare una scossa alla struttura nelle more di una potenziale riforma contenuta nel codice antimafia – afferma Posca, «si occupa solo delle aziende definitivamente confiscate. In realtà, la legge attuale non vieta affatto, anzi, prevede un suo intervento di coordinamento fin dal sequestro ». Fatto sta che non si sa come siano stati spesi e che risultati abbiano prodotto i 7,3 milioni che avrebbero dovuto garantire la costituzione e l’aggiornamento della banca dati dell’Agenzia. Il nodo occupazione Le aziende, è la posizione di Posca, «vanno mantenute sul mercato per preservare posti di lavoro, impianti e know how e per salvaguardare un valore economico inteso in senso lato che, in determinati territori, anche se è stato realizzato per gran parte da organizzazioni criminali, occorre provare a restituirlo in efficienza alla comunità». Tutti d’accordo? Mica tanto. Stefano Musolino, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, lancia una provocazione che deve far riflettere. «Non sta scritto da nessuna parte che sia un male che l’azienda sequestrata o confiscata esca dal mercato – spiega il pm al Sole 24 Ore – perché se non aveva capacità di starci seguendo le regole del libero mercato e della sana e leale concorrenza, eliminarla significa liberare spazi per quei soggetti che vogliono fare lo stesso lavoro ma rispettando le regole. Del resto questa visione è assolutamente coerente con le misure di prevenzione che puntano proprio a espellere dal mercato chi fino a quel momento ha vissuto senza rispettare, ad esempio, il libro paga per tutti i dipendenti, i requisiti previsti dalle norme in materia di igiene e sicurezza, senza pagare i fornitori con puntualità e approvvigionandosi a capitali illeciti per finanziarsi. Il ripristino della legalità determina, a volte e necessariamente, la crisi economica dell’azienda». E i lavoratori? Lucido il ragionamento: «I lavoratori di quel tipo di aziende fanno parte di un circuito rischioso e dunque la fine del rapporto deve essere messo nel conto». Posca non si lascia sorprendere.

 «L’azienda mafiosa sequestrata senza dubbio va esclusa dal mercato – afferma – anche perché è uno strumento criminale ed è nata e ha prosperato grazie alla mafia. In questo caso gli amministratori giudiziari non hanno altro compito che fermarsi, liquidarle e farle fallire. Se così non facessero commetterebbero anche loro un reato. È l’esempio delle cosiddette società cartiere, nate solo per produrre costi e ricavi sulla carta ». Secondo la stima di Posca, le aziende fallite e liquidate per queste ragioni si trovano all’interno di quelle 7.509 aziende non più attive. «Poi ci sono aziende di proprietà mafiosa – chiosa Posca – ma che hanno i numeri per restare sul mercato. Ho amministrato molte aziende sequestrate a organizzazioni criminali che avevano esperienza e notevoli capacità che sono state valorizzate e restituite al territorio senza perdere posti di lavoro». Tutto vero ma per deliberare bisogna conoscere. A fondo.(IlSole24Ore)

 di Roberto Galullo

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