Dal Mali a Caifa e ai chiostri siciliani, la storia svelata dalle pietre
«Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». «Si, io lo sono». (Marco 14, 53-65).
Lishkat ha-Gazith, Gerusalemme. Le parole dell’episodio fondante, rimbalzano nella sala delle pietre squadrate. Caifa, il Gran sacerdote, sommo del Sinedrio, evoca la bestemmia, incita la sedizione, denuncia la lesa maestà.
Le parole antiche risuonano ancora, dopo secoli, a migliaia di chilometri di distanza. Volteggiano nel chiostro di un monastero siciliano. La rievocazione è affidata alle pagine di un libro: “L’image en acte. Une histoire de l’art”, Algra editore. L’autore è Yves Bergeret, antropologo, poeta, storico dell’arte.
Bergeret è in grado di ascoltare le voci delle pietre, è un esploratore di penombre, un lecteur d’espace. Nel libro, racconta le suggestioni bracconate nel corso delle sue silenziose esplorazioni. Un peregrinare conradiano. Muove da remoti villaggi del Mali, alla Collegiata di San Bernardo de Romans. Le pagine centrali del volume, sono dedicate agli affreschi riscoperti in un remoto paesino dell’entroterra siciliano. “Au coeur de la tumultueuse et ènigmatique Sicile”, puntualizza Bergeret. L’autore degli affreschi è ignoto. Il tema raffigurato è univocamente indicato come la scena della sentenza di Caifa. Bergeret, tratteggia con scrittura emozionale, la moltitudine dei personaggi vocianti che affollano le scene degli affreschi. Il racconto dello scrittore francese, sembra riportare in vita il brusio incessante e i messaggi indicibili dei personaggi in palinsesto. Una grande figura troneggia al centro della scena, come in un’arena di circo. Ė Caifa, il Grande Sacerdote del Sinedrio. Sono brandelli di pittura slavata, quelli scampati all’incuria del tempo e alla devastazione dei barbari. Affreschi, dai quali emergono e affogano figure di uomini iracondi, impetuosi, veementi. La descrizione della scena pittorica, la geometria compositiva, i rimandi storici operati, sono intuizioni visionarie, per dirla con un altro grande francese: Artur Rimbaud. La poliedricità di Yves Bergeret, trasfigura dall’antropologia, alla storia dell’arte. L’efficacia ineffabile è quella dello scandaglio linguistico. Questo il registro inedito che contraddistingue il libro. Le pagine di Bergeret restituiscono, con maestria, la distinzione del senso performativo di un indicativo presente in relazione al perfettivo dei verbi delle lingue slave e all’aoristo greco.
Il volume è attraversato da un filo rosso. Il raffronto che lega la pittura naif degli schiavi du Peul, alle meridiane dipinte in un villaggio di Saint-Vèran. Un fil rouge che associa gli affreschi dipinti da un fiammingo in una Sicilia di un vago Settecento, alle maschere rostrali negli alti nevai dell’Oisaus. Il libro alterna, come un retablo, pagine in italiano e in francese. Un escamotage che consente di raffrontare due scene della stessa storia. La sentenza di Caifa raccontata dagli affreschi del chiostro siciliano e la stessa evocazione affidata agli arazzi di una chiesa gotica francese. La prima, rischiarata dalla luce cangiante del sole isolano. La seconda, intravista nella penombra di una chiesa di Roman sull’Isère.
Un reportage raffinato dunque. Muove dal cuore remoto dell’Africa. Sosta, simbolicamente, nel luogo baricentro dell’Isola tricuspide del Mediterraneo. Approda sul suolo iniziatico carolingio. Pittura, religione, parola per un libro dedicato ai “poseurs de signes”, ai posatori di segni del passato. La parola e la pittura, il testo e la tela, accomunate da una radice comune: tegere. Coprire superfici con segni, gravures, per evocare storie misteriche. Come hanno fatto, per millenni, sciamani, poeti, pittori, scrittori, griot e indovini.
Mirabile il connubbio che lega religione e pittura. “Maria condusse Gesù dal tintore Israele ”. Così si legge nel Vangelo Apocrifo dell’infanzia. Manoscritto custodito da monaci Mechitaristi, seguaci di Mechitar di Sebaste. Narra dell’infanzia di Gesù e del mondo fenomenico. La raffigurazione pittorica dunque è magismo, trasmutazione alchemica. Le figure tratteggiate dagli sciamani, i disegni degli allevatori nomadi africani, gli affreschi nelle chiese cristiane, gli arazzi delle cattedrali gotiche, sono realtà di seconda istanza. Le pagine di Bergeret sono invocazioni magiche, canali medianici, implorazioni di entità, celebrazioni rituali. Parola scritta, pittura e religione trovano sintesi straordinaria nelle pagine conclusive del volume.
“Una quaeque hora inveniant te pinge utem aeternitatim”. In qualsiasi ora ti colga mentre dipingi l’eternità. Questo si legge sulla volta di una baita di Saint-Vèran. Ė questo il portato misterico di ogni pittore che ha affidato ai segni il segreto del racconto. Il pittore dunque è il medium, il messaggero, l’anghelos. Come il Pausania di Vincenzo Consolo:
«Io sono il messaggero, l’anghelos, sono il vostro medium, colui a cui è affidato il dovere del racconto, colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità, le astuzie della prosa, del linguaggio (…) Dopo è l’arresto, l’afasia. Ė il silenzio».
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