Criminalità senza più «scudo», primo sequestro di capitali rientrati

Economia | 8 aprile 2017
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Anche la criminalità si piega alla voluntary disclosure. A differenza dello scudo fiscale – che garantiva l’anonimato ai possessori dei capitali fatti rientrare in Italia – l’autodenuncia nella dichiarazione dei redditi delle attività finanziarie e degli investimenti patrimoniali all’estero consente alle indagini investigative di andare a colpo sicuro quando il denaro proviene da attività illecite e c’è un’evidente sproporzione tra le capacità reddituali e le effettività disponibilità finanziarie (in Italia e all’estero). Un esempio recentissimo – uno dei primi – viene da Napoli, dove quattro giorni fa la Dia agli ordini di Giuseppe Linares ha eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca, emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli presieduta da Giovanna Ceppaluni, nei confronti dei fratelli Potenza, imprenditori ritenuti contigui ad ambienti criminali e segnatamente al clan camorristico Lo Russo. Il valore dei beni mobili e immobili complessivamente sequestrati – tra i quali il ristorante “Donna Sophia dal 1931”, a poco più di un chilometro dal Duomo di Milano – ammonta a oltre 20 milioni.

 Napoli, Milano e non solo Non è solo Napoli a muoversi. Sono diverse le Procure italiane che stanno seguendo il flusso di denaro illecito detenuto all’estero e autodenunciato nella dichiarazione dei redditi. Tra queste quella di Milano, che ha in corso almeno due indagini. Il 30 marzo Giorgio Toschi, Comandante generale della Gdf, in audizione alla Commissione finanze della Camera, ha ricordato che lo scorso anno l’azione ispettiva è stata orientata «prevalentemente verso quei soggetti che, pur potendovi ricorrere, non vi hanno fatto accesso». La Direzione investigativa antimafia di Napoli, in particolare, ha fatto luce sul trasferimento presso conti correnti italiani di ingenti risorse fatte rientrare dalla Svizzera dopo l’adesione alla voluntary disclosure di Salvatore Potenza, sua sorella Assunta e le figlie di quest’ultima. 

Al primo sono stati sequestrati – anche grazie alla rogatoria internazionale presso gli istituti bancari e all’assistenza della Procura federale elvetica – oltre 677mila euro tra liquidità e obbligazioni detenuti al 20 maggio 2015 presso la Banca svizzera italiana di Lugano. Stessa sorte per gli oltre 1,7 milioni (tra liquidità in conto corrente, obbligazioni e fondi di investimento) che alla stessa data possedeva la sorella Assunta e per gli oltre 1,8 milioni (tra liquidità in conto e obbligazioni) delle sue due figlie, sempre presso lo stesso istituto di credito. Il locale a due passi dal Duomo I conti correnti Borotalco, Cravattino, Borgata e Gladiator accesi in Svizzera celavano la reale identità dei proprietari. Senza la voluntary disclosure, che ha costretto alcuni familiari del “gruppo” Potenza a denunciarli nel modello Rw della dichiarazione dei redditi, non sarebbero mai venuti alla luce. Una parte dei soldi è stata trasferita in conti correnti italiani e secondo gli investigatori sarebbe servita, ad esempio, per acquistare attraverso la società Marras, la proprietà del ristorante nel centro di Milano. Per rilevare il locale è stata messa in campo una filiera di operazioni finanziarie, che in parte ha coinvolto anche una fondazione di diritto lussemburghese riconducibile a un componente della famiglia Potenza. Nel decreto di sequestro firmato dal Tribunale si leggono le ragioni per le quali la voluntary disclosure non mette al riparo i beni che sono stati regolarizzati. «Se è vero – si legge ne provvedimento – che il perfezionamento dell’iter amministrativo del condono legittima l’ingresso nel patrimonio dell’evasore delle somme non versate all’erario, ciò non basta a cancellare “l’illiceità originaria del comportamento” con cui l’indiziato si è procurato i beni reinvestendo il “risparmio” fiscale». Poco più in là i giudici rafforzano il concetto, spiegando che «il vizio iniziale “continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca” nonostante il cosiddetto “scudo fiscale” (terminologia che in reltà si riferisce alla voluntary disclosure, ndr)». 

Un capitolo ancora aperto Sugli effetti della voluntary disclosure – che secondo gli ultimi dati aggiornati al 30 novembre 2015 da parte dell’Agenzia delle entrate, ha garantito finora circa 3,8 miliardi, il 70% dei quali emerso proprio dai conti svizzeri – è intervenuto il 2 novembre 2016 davanti alla Commissione Bilancio e Finanze della Camera il capo della Procura di Milano Francesco Greco. «I progetti di disclosure si basano sul divieto di mentire – ha detto in quell’occasione – e sono programmi monitorati dall’Ocse, non sono invenzioni del legislatore domestico. L’Italia si posiziona bene perché ha affiancato alla disclosure alcune norme penali, che magari potevano essere fatte meglio, ma sono inserite nella norma sul contante che prevede una sanzione pesante da 1 a 6 anni nei confronti di colui che aderisce alla disclosure senza averne requisiti, ossia i reati fiscali».(Il Sole 24 Ore)

 di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

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