Brexit, due anni per dirsi addio
Due anni per negoziare un accordo di recesso e farlo approvare da parlamento britannico, parlamento europeo e Consiglio Ue. Poi ci sono da regolare i nuovi rapporti commerciali e non tra Ue e Regno Unito. Ecco perché non sarà una passeggiata.
Due anni di negoziati
Il 29 marzo, in attuazione dell’articolo 50 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea, il governo inglese ha ufficialmente
notificato al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di lasciare
l’Unione europea.
Lo stesso articolo 50 prevede un periodo di due anni entro il quale UE e
Regno Unito devono negoziare un accordo volto a definire le modalità di
recesso. Dopo alcune incertezze iniziali, è ora chiaro che l’accordo
non potrà regolare in maniera completa tutti gli aspetti delle future
relazioni tra le parti. Il suo contenuto sarà limitato alle questioni
più urgenti: 1) il trattamento dei cittadini europei residenti nel Regno
Unito e dei cittadini inglesi residenti nella UE, 2) il valore degli
impegni finanziari che Londra ha preso nei confronti della UE e che non
ha ancora assolto, ad esempio quelli sul pagamento delle pensioni dei
funzionari europei, relativi al salvataggio di taluni stati (come
l’Irlanda) oppure collegati al budget UE, come le spese per future
infrastrutture e per i fondi strutturali; 3) la disciplina doganale e
della circolazione delle merci e delle persone tra la Repubblica
d’Irlanda (che resta nella UE) e l’Irlanda del Nord; 4) l’individuazione
dei termini di una limitata partecipazione del Regno Unito al mercato
interno europeo (e viceversa); 5) la cooperazione in materia
giudiziaria, di polizia, di lotta al terrorismo e di sicurezza esterna.
Il tempo per negoziare l’accordo sarà inferiore ai due anni previsti per
concluderlo (il capo negoziatore della Commissione – Michel Barnier –
ha parlato di un anno e mezzo), perché il suo contenuto va approvato
dagli organi politici delle parti, ossia dal parlamento britannico e dal
Consiglio UE (ossia i rimanenti 27 stati membri) che delibera a
maggioranza qualificata (almeno 20 stati su 27) e dal parlamento
europeo.
L’assetto definitivo delle relazioni tra UE e Regno Unito comincerà a
essere discusso parallelamente, ma non potrà tradursi in una intesa
giuridicamente vincolante, se non dopo la conclusione dell’accordo di
recesso e l’entrata in vigore di un regime transitorio, che secondo gli
auspici del parlamento europeo non dovrebbe eccedere i tre anni.
Le incertezze
C’è qualcosa che può andare storto nel processo di abbandono dell’Unione? Ovviamente sì.
Cosa accade, ad esempio, se le parti non concludono l’accordo di recesso
nei due anni? E se il parlamento inglese o quello europeo non approvano
l’accordo concluso dai negoziatori? L’articolo 50 prevede che, in
assenza di accordo di recesso, i trattati UE cessano comunque di
applicarsi allo stato interessato. Pertanto, il 30 marzo 2019 il Regno
Unito non sarà più uno stato membro. Questo esito può essere evitato
solo a una condizione che appare oggi politicamente non percorribile,
ossia che tutte le parti – i 27 stati membri e il Regno Unito – decidano
unanimemente di estendere il termine dei due anni.
Senza accordo di recesso, come sarebbero regolate le relazioni tra Regno
Unito e UE? Il primo ministro May ha dichiarato al parlamento
britannico che, in quel caso, si applicherebbe la disciplina del Wto,
alla quale le due parti continueranno a essere legate. La questione,
però, è più complessa di così. Il Wto non si applica automaticamente. Il
Regno Unito dovrebbe stabilire le sue tariffe sia per i beni sia per i
servizi e non si tratta di un esercizio che può essere improvvisato in
poche settimane. Inoltre, il Wto copre solo le materie del commercio e
non si occupa della gran parte dei settori extra-trade oggi disciplinati
dalla UE. Su questi ultimi, i rapporti tra Londra e la UE sarebbero
tutti da ricostruire.
Anche gli accordi definitivi tra Regno Unito e UE, probabilmente da
stipularsi tra cinque anni, non possono essere dati per scontati.
Avrebbero carattere misto, ossia dovrebbero essere conclusi oltre che
dall’Unione anche da tutti i rimanenti stati membri, secondo le
rispettive norme costituzionali. Basta che anche un solo parlamento
nazionale – o regionale, se così è previsto dalle norme interne – non
approvi i nuovi trattati e il sistema si blocca per tutti. L’esempio del
Ceta, messo a rischio dal parlamento vallone, basta a illustrare il
problema.
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