Addio Vito Parrinello, anima del teatro Ditirammu
«Sai, mi nni vulissi iri ri notti, accanto a Rosa, ma senza svegliarla. E mi nni vulissi iri in un sciuscìu, perché non la voglio la malattia che non mi fa più sonare». Vito era uno religioso, faceva parte della comunità della grande chiesa che era di fronte al suo teatrino: probabilmente qualche volta l’avrà anche pensata questa frase affettuosamente goliardica. Ed è successo così, Vito Parrinello, l’anima del Ditirammu se n’è andato di notte, nel suo letto, per un infarto, a 67 anni e chi l’aveva visto la sera prima al San Lorenzo Mercato per l’ennesimo spettacolo, ieri non ci voleva credere. E fa già la coda per salutarlo in quel suo teatrino che ti accoglieva come un abbraccio, sia che fossi pubblico, artista, amico. Il Ditirammu o i Parrinello erano una famiglia allargata, ma non nel senso moderno di due padri, due madri dieci figli affettuosamente nello stesso lettone: i Parrinello erano aperti agli artisti di ovunque e comunque e capitava raramente (forse mai) che qualcuno che aveva diviso con loro il palcoscenico, non entrasse nella famiglia.
E guardasse con invidia all’amore immenso che legava Vito e Rosa: lui l’abbracciava dall’alto, lei lo guardava dal basso, lei cantava, lui teneva la testa abbassata sulla chitarra, erano una sola voce, e una musica. E lui la presentava con orgoglio, «Rosa è l’anima della città». I progetti li vedevano sempre insieme, sulle barricate per salvare il loro teatrino, sul palco, con Vito preoccupato se Rosa non voleva cantare… Una vita insieme, la voglia di insegnare ai giovani e ai giovanissimi. E quei due figli, tirati su a canzoni e chitarra, Elisa che dà anima alle fiabe, Giovanni che con i Tamuna costringe a ballare.
La casa era il teatrino, 50 posti accatastati gli uni sugli altri, con un «foyer» che sembra tinello, popolato dagli oggetti che Rosa realizzava come collage, i cavallucci di legno, le madonnuzze: chi vuole bene al Ditirammu, ne conserva uno a casa. Qui prendono vita «Ninnarò» (diventerà anche un film, regia di Vincenzo Pirrotta) e «Martorio», l’omaggio più autentico degli artisti palermitani alla loro città: anno dopo anno, i due spettacoli prendono corpo, anima e voce, riescono a far arrivare la compagnia Ditirammu fino a San Pietro, dinanzi Papa Giovanni Paolo II. La storia della famiglia pesca nella metà dell’800 con l’avo Pietro Cutrera, musicista che completa a sue spese il Teatro Garibaldi. Vito Parrinello deve parecchio a nonna Angela e soprattutto, allo zio Giovannino Varvaro, alla sua passione per l’arte e la musica popolare. Vito e Rosa erano nati tutti e due in una Palermo che rialzava la testa dopo la guerra: 1950, un anno d’oro, si faceva strada il coro Conca d’oro, che chiamavano dopolavoro, ma che si cominciava a far conoscere all’estero.
Del coro faceva parte la madre di Vito, Irene D’Onufrio che rinunciò ad una vita borghese per seguire il suo Giuseppe Parrinello in campagna. Rimasero insieme sessant’anni, ma la musica fece parte sempre della loro vita. Vito cresce tra musiche diverse, nel 1967 fa parte del gruppo I Seleniti, e suona nelle feste di piazza. Conosce Rosa e non si lasciano più. Dividono l’amore per la Sicilia, per i canti della terra, per le tradizioni e le cerimonie. Rosa canta, Vito suona, il loro non è folk ma anima. La vita è difficile, il teatrino Ditirammu verrà dopo, per il momento la compagnia è solo una sorella più grande degli artisti girovaghi di una volta. E quando nascerà lo spazio, non saranno sempre tutte rose e fiori: anni fa, quando la crisi era nera, mancavano gli aiuti, il teatrino Ditirammu stava per chiudere e si mosse l’intera città. Vito, Rosa, Giovanni ed Elisa decisero di vendere costumi e arredi, accorsero le mamme della Kalsa per aiutarli: i loro bimbi frequentavano i laboratori di Elisa che, come i genitori, da qui non se n’è mai voluta andare. Il problema del Ditirammu è che era piccolo e tutti non c’entravano. Ed anche ora, che si vuole dare un saluto a Vito, la gente è fuori, nel baglio, nella piazza. Si fermano e si abbracciano, il dolore è grande e improvviso.
C’è la Palermo della scena, perché Vito Parrinello aveva lavorato con tutti, e tutti gli erano rimasti legati: c’è Paride Benassai che l’altra sera era sul palco con lui, Filippo Luna che è stato l’ultimo Ninnarò e Gigi Borruso prima di lui, Marco Pomar, Stefania Blandeburgo, la «signora Palermo» che Vito aveva pensato con Daniele Billitteri, Sabrina Petyx, Vincenzo Pirrotta. Il sindaco è accorso a casa, in via Serradilfalco, l’assessore Cusumano lo ricorda con affetto. C’è chi guarda la Lapa colorata abbandonata in un angolo, l’ultimo progetto di Vito, il teatro viaggiante che era soltanto un Carro di Tespi moderno. È il teatro palermitano che abbraccia Rosa, Elisa e Giovanni, affidando loro il testimone del domani.
Ed Elisa promette di finirlo il progetto di papà, «al quale avevo ancora tante cose da dire»: quell’Historia Palermo che aveva iniziato a scrivere ma non trovava mai il tempo di finire. Nel tinello che funge da foyer, ci sono le vecchie lavagnette, in una con la data 1 ottobre 2017 «ho fatto quello che potevo», (un presagio?, no sorride Elisa, voleva passarci il teatro »); nell’altra, «a spettacolo iniziato, …si può entrare», la porta del Ditirammu è sempre aperta.
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