A 25 anni dalla strage di via D’Amelio risposte con il contagocce

Società | 14 luglio 2017
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«Lei ha il decreto di archiviazione dell’indagine sui sistemi criminali? Presumo di sì ed allora lì c’è la pista per cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero uccisi. Non è un caso che fecero di tutto, riuscendoci, per far abortire quella indagine». Roberto Scarpinato – a poche ore dalla sentenza con la quale ieri la Corte d’appello di Catania ha assolto dall’accusa di strage, con processo di revisione, nove persone coinvolte ingiustamente nell’attentato del 19 luglio 1992 - con questa riflessione retorica ricorda al Sole 24 Ore che i motivi (e i mandanti) delle due stragi del ’92 restano ancora senza una verità giudiziaria credibile. Scarpinato oggi è procuratore generale a Palermo ma il 21 marzo 2001, giorno in cui chiese l’archiviazione della sua indagine al Gip del Tribunale di Palermo, era in procura a Palermo. Sistemi criminali Pur avendo acquisito molti elementi sapeva che non erano sufficienti per sostenere in giudizio l’accusa secondo la quale, all’inizio degli anni 90, venne elaborato, in ambienti esterni alle mafie ma ad esse legati, un nuovo progetto politico, attribuibile ad ambienti della massoneria e della destra eversiva, in particolare agli indagati Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci. Non fu sufficientemente provato neppure che Cosa Nostra deliberò di attuare la “strategia della tensione” – che si aprì il 12 marzo 1992 con l’uccisione di Salvo Lima, passò per le stragi di Capaci e via D’Amelio, la morte di Ignazio Salvo, gli attentati a Roma e Firenze e si concluse il 27 luglio 1993 con l’esplosione di via Palestro a Milano – per agevolare la realizzazione di quel progetto politico, né che l’organizzazione mafiosa abbia approvato l’attuazione di un piano eversivo-secessionista per effetto di contatti con quel gruppo. Messina e Ciolini «inutili» A nulla valse neppure raccogliere in quella indagine, partita nel 1998, testimonianze e documenti. 

La prima fu quella di Leonardo Messina, pentito nisseno, che per primo fece cenno alla riunione dei vertici di Cosa Nostra a Enna nel ’91, seppur senza riferire del progetto eversivo, già nel primo interrogatorio in cui manifestò la sua intenzione di collaborare con la giustizia, reso il 30 giugno 1992. A chi? All’allora procuratore aggiunto di Palermo Borsellino. Dichiarazioni che Messina ribadì - questa volta facendo espressamente riferimento al progetto eversivo e al ruolo di Cosa Nostra - il 4 dicembre 1992 davanti alla Commissione parlamentare Antimafia e ancora a Palermo il 4 febbraio 1993. Messina, davanti alla Commissione disse anche: «Io parlo di Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia». Sul piatto, Scarpinato mise anche la lettera che Elio Ciolini, personaggio legato al mondo dei servizi segreti, ad ambienti massonici e all’eversione nera, il 4 marzo 1992 (quindi otto giorni prima dell’omicidio Lima) spedì al giudice istruttore del Tribunale di Bologna, il cui oggetto era la “nuova strategia tensione in Italia/ periodo: marzo-luglio 1992”. Se il Ciolini non è fornito di doti “paranormali” di preveggenza, disse allora Scarpinato e lo ripete oggi con il Sole 24 Ore, significa che possedeva preziose informazioni sulla strategia di imminente attuazione. Non può sfuggire la straordinaria precisione del periodo di attuazione della strategia: marzo/luglio ’92, nel quale vennero uccisi il senatore Lima (12 marzo), Falcone (23 maggio) e Borsellino (19 luglio). La memoria ferita Così, mentre si avvicina la data del venticinquennale della strage di via D’Amelio nella quale il 19 luglio 1992 perirono Borsellino e cinque agenti di scorta e mentre anche ieri è continuato lo scempio della memoria di Falcone, non resta che ricostruire la verità sulla morte di Borsellino (che si lega a doppio filo a quella di Falcone) di cui finora la Giustizia è in possesso. 

Verità, a voler usare un eufemismo, parziale. Per stessa ammissione della Procura di Caltanissetta che, dopo anni di depistaggi, con il processo Borsellino-quater, chiuso con gli ergastoli inflitti il 27 aprile dalla Corte d’Assisi di Caltanissetta a Salvo Madonia e Vittorio Tutino e la condanna a 10 anni ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, ha messo qualche punto fermo, come quello in base al quale anche in quella strage (come in quella di Capaci) il mandamento di Brancaccio fu protagonista assoluto.

 A capo della famiglia di Brancaccio c’era quel Giuseppe Graviano che - difficile ritenere che sia un caso - nelle registrazioni intercettate nel carcere di Ascoli tra il febbraio 2016 e aprile 2017 e ora depositate al processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra è tornato a parlare di soggetti esterni alla mafia nella lunga stagione stragista. I punti fermi da cui ripartire Punti fermi - i due ergastoli, il ruolo della famiglia di Brancaccio e le verità raccontate da un altro mafioso dello stesso mandamento, il pentito Gaspare Spatuzza - che il sostituto procuratore di Caltanissetta, Stefano Luciani, ha difeso con forza il 14 giugno davanti alla Commissione Antimafia: «Quando si dice che il lavoro della procura di Caltanissetta sul Borsellino-quater è stato un lavoro fatto a processare il grado basso e infimo dell’associazione mafiosa e non si è teso ad altro, forse non si riesce a comprendere che il lavoro si costruisce per piani, quindi se andiamo a mettere un primo piano solido forse possiamo mettere un secondo piano solido, che è la conseguenza di un primo piano finalmente centrato e finalmente aderente alla realtà dei fatti». 

Un nuovo (l’ennesimo) inizio dopo anni di depistaggi, sentenze errate e profili inquietanti come quello del falso pentito Vincenzo Scarantino. Come ha affermato il procuratore aggiunto della procura di Caltanissetta Gabriele Paci davanti alla presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi, il puzzle ha tasselli che vanno messi al loro posto ma consente di avere un’idea abbastanza chiare sulle future indagini. I tasselli mancanti I tasselli del puzzle li descrive lo stesso Paci: «Non c’è solamente il discorso della trattativa che emerge e che abbiamo più volte evidenziato nel corso del processo, c’è il discorso del rapporto mafia-appalti. Discorso mafia-appalti che inizia nel 1989 e che vede quel famoso rapporto che l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno depositano, se non sbaglio nel febbraio del 1991, e che consegnano a Giovanni Falcone. Ma Giovanni Falcone il giorno dopo o qualche giorno dopo migra per Roma e quindi viene passato all’allora procuratore della Repubblica di Palermo Giammanco. Quel rapporto contiene, nei suoi allegati, elementi molto circostanziati che riguardano non solo la Tangentopoli siciliana, che però rispetto alla Tangentopoli milanese ha il problema che l’altra gamba del tavolino è rappresentata da Cosa Nostra, ma contiene anche gli elementi che riguardano proprio il dottore Giammanco. Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala. 

Altro dato che emerge inquietante è che - spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto - già nel 1991 Cosa Nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all’eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala. Che cosa ha fatto Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti?». Domande insolute che si aggiungono a tante altre, come ad esempio quella più importante: chi sono stati gli autori del depistaggio? Amara la risposta di Paci: «...dopo 25 anni, per capire quello che è successo, ci vuole... ». La frase sospesa dice tutto su domande che, se rimarranno ancora una volta senza risposte, saranno l’ennesima tappa di un martirio della storia democratica di questo Paese, che dura da 25 anni. (Il Sole 24 ore)

 di Roberto Galullo

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