Il Mezzogiorno grande malato, ci vogliono buone terapie
Il Mezzogiorno è gravemente ammalato, e la sua situazione peggiora di anno in anno. Anche l'Italia nel suo complesso non sta affatto bene. Nel resto del mondo vi è dinamismo, nei paesi emergenti, o segnali di uscita dalla crisi, nei paesi che l'avevano subita. Non ve ne sono tanti, purtroppo, nel Bel Paese. Ancor meno, molto meno, nel Mezzogiorno. Una decina d'anni fa, o poco più, sembrava quasi sconveniente parlare di questione meridionale e di politiche finalizzate a risolverla. Il Mezzogiorno, secondo il titolo di un pamphlet di Viesti, era concettualmente da “abolire”. Nelle scelte concrete dei governi, poi, la penalizzazione è stata continua e via via crescente, attraverso la mancata realizzazione di investimenti e la sottrazione di risorse già formalmente destinate al Sud. Chi ha percorso questa via ha peraltro avuto facile gioco a sostenere che dare denari ai territori meridionali equivaleva o buttarli dalla finestra o anche peggio, visto che (con qualche eccezione) in parte non venivano spesi affatto, e in parte erano spesi in modo clientelare, quando non consegnati al malaffare.
In realtà, per quanto la crisi abbia colpito molto duramente anche il Centro-Nord, al Sud essa ha avuto e continua ad avere effetti devastanti. Il divario con il resto del paese (quindi appunto la questione meridionale) si acuisce sempre di più, delineando un quadro allarmante. In questo 2013, che tra l'altro ha anche visto svolgersi le elezioni politiche, vi è stata una fioritura di analisi per lo più incentrate sulla descrizione di un quadro clinico sempre più desolante. Tra gli altri si possono menzionare documenti dell'Istat, del Censis, di un gruppo di associazioni meridionaliste (non più ridotte al silenzio), della Svimez, il cui rapporto annuale è stato presentato lo scorso 8 novembre nell'ambito della sesta edizione delle Giornate dell'economia.
L'Istat nel suo Rapporto “NoiItalia 2013”[1] non ha previsto uno o più capitoli specificamente dedicati al Sud, ma piuttosto, come di consueto, ha evidenziato argomento per argomento la specificità meridionale, che è sempre presente. La raccolta di rifiuti è assai più inefficiente al Sud. L'indice di vecchiaia della popolazione al Sud dal 2002 al 2012 è cresciuto del 30% circa, il doppio della media nazionale. Per istruzione e formazione al Sud si è speso, nel 2010, il 6,7% del Pil (contro un 4% nazionale), cui notoriamente corrisponde una qualità del prodotto formativo nel complesso assai scadente (misurata su dati Ocse-Invalsi, o anche in abbandoni precoci). Le imprese meridionali sono più instabili, più piccole e meno competitive. I trasporti sono più carenti. Nel 2011 il tasso di occupazione della popolazione tra i 20 e i 64 anni è solo del 47,8 al Sud, contro una media nazionale del 61,2% e un Centro-Nord al 68,2%. Il tasso di inattività è del 49,0% al Sud contro il 31,6% al Centro-Nord. Al Sud la povertà è sia molto più diffusa sia più intensa che al Centro-Nord, mentre la spesa per intervento sociali dei comuni è ben inferiore a quella del resto del paese. Anche lì dove la debolezza economica dovrebbe aiutare il Sud su qualche indicatore (come l'emissione di gas serra o la qualità dell'aria), esso invece esibisce valori solo di poco ovvero di non molto inferiori al resto del paese: vi è molto inquinamento anche in assenza di industrie. Infine, la rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro (http://www.istat.it/it/archivio/98019) ci dice che nel secondo trimestre del 2013 in Italia vi è stata una contrazione degli occupati di 585.000 unità rispetto a un anno prima (-2,5%), di cui 335.000 nel solo Mezzogiorno. Quanto sopra è confermato dal Rapporto BES Istat-Cnel per il 2013[2], che parla di un Mezzogiorno più povero e più diseguale.
Il Censis[3] presenta un quadro analogo, soffermandosi anche sui ritardi e gli effetti perversi nell'utilizzo delle risorse europee, caratterizzato dalla mancanza di un modello di intervento specifico e di una selezione delle priorità, nonché da finanziamenti a pioggia; sulla bassa qualità dei servizi pubblici meridionali; sull'abbandono della sanità pubblica; sulla disillusione verso l'università.
Il documento Agenda per il Sud (sottoscritto da 21 istituti meridionalisti)[4], redatto con l'intento di richiamare l'attenzione dei partiti che in quel momento si trovavano in competizione elettorale sui problemi del Sud, ha toccato in chiave propositiva temi quali la riforma del Patto di stabilità, l'aumento della tassazione sui consumi (ipotizzando l'incremento dell’Iva e una patrimoniale in cambio dell’abolizione dell’Irap sul manifatturiero), una politica contro la desertificazione industriale, per la riqualificazione urbana, la logistica, le energie rinnovabili, il reddito di cittadinanza, la governance multilivello, il rinnovamento delle classi dirigenti.
Il rapporto Svimez 2013 (Mulino, 2013), com'è noto, è il documento più ampio che viene prodotto sul mancato sviluppo meridionale. La Svimez, creata nel 1946, ha un passato glorioso: nei suoi prima anni di vita fu centro di elaborazione di politiche di sviluppo ben formulate, che ebbero successo fino ai prima anni settanta. Il Rapporto ha evidenziato sia il ritardo dell'Italia rispetto all'UE, sia l'aumento del divario Nord-Sud, con riferimento a occupazione, diseguaglianze, dotazione industriale, crollo degli investimenti, tendenze demografiche alla contrazione e all'invecchiamento della popolazione. Sia nel Rapporto che nella relazione del presidente Giannola alla presentazione romana dell'ottobre 2013, si legge un apprezzamento per la neo-istituita Agenzia per la coesione territoriale (di cui non però non si faceva cenno nell'Agenda per il Sud).
Nella presentazione palermitana dell'8 novembre il direttore Padovani si è soffermato sulla Sicilia, evidenziando come nel periodo 2008-2012 qui la perdita di Pil sia superiore anche al resto del Mezzogiorno, specie nel manifatturiero e nelle costruzioni, e altrettanto valga per l'occupazione (meno 5,8% in Sicilia 2008-2012 contro meno 4,6 nel Mezzogiorno e meno 1,2 al Centro-Nord). La disoccupazione corretta (che tiene conto dei disoccupati espliciti, di quelli impliciti e di quelli in Cassa integrazione) nel 2012 è del 28,4 al Sud (contro l'11,9 al Centro-Nord), ma del 32,8 in Sicilia, con una particolare penalizzazione dei giovani. Gli addetti industriali per mille abitanti nel 2012 sono 96 al Centro-Nord, 38,8 nel Sud, solo 25,3 in Sicilia. Il rischio di cadere in povertà al Sud è triplo rispetto al Centro-Nord, in Sicilia quadruplo. Le recenti tendenze di austerità nella spesa pubblica hanno penalizzato il Sud più del Centro-Nord.
Le fonti di cui sopra evidenziano una sintomatologia che peggiora rapidamente. Per scegliere terapie adeguate sono però necessarie anche diagnosi altrettanto adeguate - raramente presenti - delle cause del fallimento degli interventi. La causa principale è la “deriva distributiva” delle politiche di sviluppo, che si ha quando le risorse vengono consegnate nelle mani sbagliate (a Roma così come nelle regioni), con uno sviamento verso finalità di consenso e una riproduzione del sottosviluppo[5]. In estrema sintesi, per aggredire subito e con effetti di rilievo un quadro clinico così disastroso, occorrono due interventi possibilmente nazionali, entrambi delineati dal governo attualmente in carica: un'integrazione al minimo del reddito per coloro che cadono al di sotto della soglia di povertà (non un assai più costoso reddito di cittadinanza) e un'Agenzia indipendente per la promozione dello sviluppo, degli investimenti e delle infrastrutture. Ho già fatto cenno alla recente creazione della seconda. La prima misura è il SIA (sostegno all'inclusione attiva), presentato due mesi fa dal ministro del lavoro e delle politiche sociali Giovannini.
Che entrambe le idee siano buone lo si poteva capire molto tempo fa. Lo fece ad esempio la “commissione Onofri” proponendo un reddito minimo nel 1997, quando sarebbe stato assai più facile realizzarlo (poi si fece l'opposto, adottando nel 2000 una riforma dell'assistenza sociale sbagliata, la legge 328). Comunque sia, meglio capire tardi che mai. Ma enunciare buone idee non basta. Occorre specificarle bene quando si passa all'atto pratico. Per il SIA sono necessari almeno sei miliardi di euro annui, ma anche una copertura di tutti i bisognosi (non solo dei clientes) e solo di essi, tramite procedimenti il più possibile rigorosi e “automatici”, gestiti da un soggetto anch'esso indipendente (una sorta di “Agenzia delle uscite”), facendo in modo che i beneficiari siano penalizzati se non cercano un lavoro vero. È una cifra non piccola, ma si può reperire, tra l'altro attingendola ad ammortizzatori sociali obsoleti e anche a somme che di solito servono alle pubbliche amministrazioni per tamponare emergenze o stabilizzare precariati di vario tipo.
Quanto all'Agenzia, essa dovrà operare con una mentalità e una prassi operativa radicalmente diverse rispetto a quelle che hanno caratterizzato il Dipartimento delle politiche di sviluppo e coesione, il quale, pur con alcuni indubbi meriti, insieme alle regioni (senza dimenticare alcuni ministeri) è stato, negli ultimi quindici anni, il principale responsabile del fallimento di quelle politiche. Inoltre, l'Agenzia dovrebbe avere prerogative molto vaste e incisive (dovendo in tempi rapidi realizzare opere e attrarre investimenti su un territorio che presenta enormi svantaggi competitivi), e una sua cospicua dotazione di risorse nazionali e comunitarie, che vanno tolte o non vanno date a qualcun altro.
Se si vuole fare sul serio, queste sono le terapie. Se no, non culliamoci nell'ennesima illusione.
[1] 100 statistiche per capire il paese in cui viviamo, http://noi-italia.istat.it/.
[2] “Il benessere equo e sostenibile in Italia”: http://www.istat.it/it/files/2013/03/bes_2013.pdf.
[3] “La crisi sociale del Mezzogiorno”, Censis note e commenti, 2/3, 2013, http://www.censis.it/12?shadow_rivista=120670.
[4] http://lnx.svimez.info/images/INIZIATIVE/2013_02_06_manifesto_sud/2013_02_06_documento_sud.pdf.
[5] La Spina, A., La politica per il Mezzogiorno, Mulino, 2003.
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