In memoria di Ciccio Renda e di sua moglie Antonietta

20 maggio 2013
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Una coppia d'acciaio, Antonietta e Francesco Renda. Sobria, riservata, tenace: avvertivi tra loro un sodalizio, una condivisione piena, un'intesa umana, una complicità affettiva, un legame fortissimo eppure tutto privato, nello spendersi pubblicamente entrambi.

Mai una chiacchiera, in un partito chiacchierone, in cui si sapeva tutto di tutti e in cui - come racconta Ermanno Rea nel suo terribile “Mistero napoletano” - venivano pubblicamente sanzionati, talvolta fino alle estreme conseguenze, comportamenti e rapporti in odore di “sacrilegio” per quella chiesa spietata che fu il Pci, che pretendeva di essere anche una scuola che ti educava alla vita, prima che alla militanza e alla pratica politica, senza avvedersi - fino al Sessantotto - di essere diventata soltanto repressiva, in qualche caso fino alla ferocia. Perché “altri e alti doveri”, ci spiegavano, a noi giovani scalpitanti e irrispettosi, venivano prima: prima degli individui, prima del diritto ad avere una propria vita, prima di scelte private e in fondo, noi pensavamo, irrilevanti politicamente.

Per loro due, invece, e per migliaia di militanti e dirigenti di quella generazione uscita viva dal fascismo e dalla guerra, quegli “altri e alti doveri” erano il sale della terra, la motivazione costitutiva, la stessa ragion d'essere o di essere diventati e di dichiararsi orgogliosamente comunisti.

Per “i Renda” prima di tutto veniva tantissimo impegno politico, sociale e culturale: un mito da seguire e un esempio da rappresentare per tutta la vita. Per lei, Antonietta, impegno da militante, da maestra e da capopopolo per migliaia di donne; per lui, Francesco, Ciccio per gli amici e i compagni di sempre, impegno da storico all'Università di Palermo e da dirigente politico del Partito comunista siciliano: per lungo tempo in prima fila, con incarichi da dirigente, poi sempre un po' più defilato, a pensare e scrivere libri che hanno disegnato e segnato la storia della Sicilia, dell'Italia, del Novecento, del Partito comunista, delle lotte contadine, della guerra alla mafia. E non solo, ché di tanto di più - e di tutto ciò che riguardava la storia della sua terra e del suo popolo - si è occupato Francesco Renda in almeno settant'anni di attività intellettuale.

Antonietta per la verità di cognome faceva Marino, ma di quei tempi le donne, anche le compagne, appena sposate prendevano il cognome del marito, nel bene e nel male, per sempre. Così per Anna Grasso, che si chiamava Nicolosi ma nel partito e sulla scena politica siciliana - tra le prime poche donne elette al Parlamento regionale - mantenne il cognome del marito anche dopo la separazione; così per Lina Colajanni, con un nobile cognome piemontese sconosciuto ai più, che avendo sposato Pompeo, il famoso “comandante Barbato” della Resistenza, diventò per tutti e per sempre “la compagna Colajanni” punto e basta. Così per Svetlana Parisi che in origine aveva un cognome russo, o per Franca Vizzini nata Adornetto, o Maria Amato o Maria Rosa Barcellona che da ragazza faceva La Malfa, ma chi l'ha mai saputo.

Naturalmente c'era qualche eccezione: Simona Mafai, moglie di Pancrazio De Pasquale che fu anche presidente dell'Assemblea regionale siciliana, la quale aveva però quel cognome “pesante” del padre - Mario Mafai, pittore della Scuola romana, uomo della grande cultura del Novecento - che lei portava orgogliosamente, con cocciuta distinzione da quel marito di altrettanto e maggiore peso politico, lui all'Ars, lei in Senato; o Eros Manni, sposata con il deputato e senatore Vito Giacalone, che nell'immaginario delle donne del popolo del Borgo e del sottoproletariato dello Zen fu sempre e solo “Erosmanni” tutto attaccato, come se il suo nome e cognome fosse un tutt'uno inscindibile dalla sua forte personalità e dal temperamento di ferro.

Erano casi abbastanza rari nel pre-femminismo, prima che venisse riconosciuto il diritto - e praticata la differenza di genere anche dentro al Partito comunista – ad avere un'identità propria e altra persino alle compagne che pure avevano duramente lottato per l'emancipazione e la liberazione femminile e per il riscatto dalle forme più arcaiche e violente di dipendenza materiale, morale, fisica e giuridica delle donne rispetto alla “jus” e alla “vis” dei rispettivi mariti, i quali neppure percepivano il problema, fino a che non esplose, e solo allora lo vissero, loro, come una violenza e una “diminuzio” del proprio ruolo e della potestà fino ad allora incarnata solo dai maschi.

Di Antonietta Renda e del suo cognome da ragazza in pochissimi ricordano che si chiamava Marino, che veniva da una famiglia di comunisti della Sicilia interna, che era stata una dirigente del Partito ante litteram. Per noi, giovani comuniste alquanto squinternate, approssimative nell'agghindarci, noncuranti della bellezza perché l'imperativo categorico, anche per svincolarci da altri assalti, era che i maschi ci valutassero solo politicamente e soltanto per l'intelligenza e l'impegno (vallo a spiegare alle berluschine) Antonietta era un personaggio tutto particolare: bionda, rosea, pingue, levigata, truccata, elegante; battuta sul terreno della bellezza, dell'eleganza, della grazia e della gentilezza solo da Lina Colajanni.

Se Marcello Cimino, giornalista del giornale L'Ora di Palermo, è stato definito da Michele Perriera “comunista soave”, per molte di noi Antonietta Renda era per l'appunto una “compagna soave”: mite e dura al tempo stesso; sorridente e irremovibile; voce suadente e convinzioni inossidabili. Insomma, la classica maestra elementare degli Anni Cinquanta, quando le insegnanti erano dei veri e propri pilastri nel sistema formativo che si andava costruendo in Italia dopo le rovine della guerra, dopo l'oppressione fascista, dopo anni e anni di schiene piegate e teste spente dal regime, dalla paura, dalla fame, dall'ignoranza.

Le maestre o i maestri elementari, e in generale chi sapeva leggere e scrivere, erano dotati di un vero potere, circondati da rispetto e considerazione, guardati con solenne e devota ammirazione. In qualche caso anche temuti dagli alunni e dalle famiglie, gli uni e le altre messi alla prova dal giudizio inappellabile dell'“autorità scolastica”. Su quelli della mia età, gli insegnanti delle scuole elementari hanno lasciato un segno indelebile: di come si può essere, di come si deve essere; di come e quanto la cultura faccia la differenza: di status sociale, di libertà di pensiero e di parola, di consapevolezza dei diritti e dei doveri. Per noi che venivamo da famiglie operaie o contadine, di modeste condizioni economiche, di scarsi e talvolta nulli livelli scolastici, è stato così: le maestre e i maestri furono lo sprone a quella che i sociologi chiamarono poi “mobilità sociale”. Temo che non sia più così: da un lato per l'azzeramento del ruolo e dei compiti della scuola pubblica, attraverso il perseguimento “scientifico” della mortificazione degli insegnanti e lo svilimento degli insegnamenti di base; dall'altro perché non c'è “mobilità sociale” che tenga – ma neppure più praticabile, altro che “assalto al cielo” - senza lavoro, senza autonomia economica, senza “uscita dalla minorità”. Noi donne lo sappiamo molto bene: quelli sono stati il forcipe, la leva, la molla, io credo, da cui ha preso le mosse “la nostra rivoluzione”. Solo dopo è diventata - ha potuto diventare - anche altro.

Ma di quanto mi sono allontanata dalla narrazione dei Renda, in questa ondivaga e rapsodica ricostruzione? Forse tanto, forse poco, forse per niente, tenuto conto di quello che “i Renda” sono stati per tutti noi, e dato quello che Antonietta e Ciccio hanno rappresentato e ci hanno regalato, con il loro prezioso lavoro e la loro longanime dedizione, negli ultimi cinquant'anni del duro percorso che ha segnato la nostra crescita umana, intellettuale, civile e politica. Compito che noi oggi dobbiamo raccogliere e rilanciare, per quel poco o tanto che sappiamo e possiamo in termini di diritto al ricordo e dovere della memoria.

Un lascito - adesso che anche Ciccio, un anno dopo Antonietta, se n'è andato, alla grandiosa età di 91 anni e con tutti i sentimenti e i pensieri a posto - che forse ci consentirà di tracciare una nuova elaborazione collettiva, in grado di restituire non tanto a noi che siamo vecchi, stanchi, delusi e disillusi, ma soprattutto a chi seguirà, la voglia di ricominciare di nuovo e di nuovo, come sostiene Max Weber nei suoi scritti su “l'intellettuale come professione” e “il politico come professione”, ri-trovando il necessario abbrivio per affrontare ancora una volta l'immane compito di risollevarci e di ripartire dalle ceneri e dalle macerie prodotte e lasciate delle orde non di prosecutori ma di “distruttori” che sono venuti dopo - dopo i Renda, dopo la fine del Pci, dopo Pio La Torre - i quali è chiaro che i libri di Francesco non se li sono letti, ammesso che leggano qualcosa che non sia il cedolino degli emolumenti parlamentari o consiliari e l'estratto conto bancario, e che di sicuro non sanno neppure chi sia stata Antonietta Marino e cosa abbia fatto nella sua vita - cosa abbiano fatto “i Renda” nella loro bella e lunga vita, in quel loro meraviglioso sodalizio - per la dignità, la rinascita e il riscatto della Sicilia.

 di Gemma Contin

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