Emorragia di posti di lavoro nel Mezzogiorno

Lavoro | 30 ottobre 2014
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I dati più significativi del rapporto Svimez presentato il 28 ottobre al Tempio di Adriano in Roma sono, a mio avviso, i seguenti:

          -nel periodo 2008-2013 su 984.434 posti di lavoro persi in Italia, 582.868 sono nel Sud, 401.566 al Nord. Il Sud ha in percentuale sull'intero paese  il 26,3% dei posti di lavoro ma ha subito il 59,2% di perdite, Il Nord che  ne ha il 73,7 per cento ne ha perso il 40,8%;

                    se si paragona l'andamento dell'occupazione nel 2° trimestre 2014  con lo stesso periodo del  2013, risultano persi 14.000 posti di lavoro su scala nazionale, ma il Nord ha aumentato l'occupazione di 76.000 unità mentre il Sud ha subito una flessione di 90.000 unità; al Nord l'occupazione è cresciuta dello 0,5%, al Sud è diminuita del 1,5%.

                    tra il 2008 e il 2013 il valore aggiunto del settore  manifatturiero è diminuito del 27% al Sud e del 16,2% al Centro-Nord ; gli investimenti sono scesi del 53,4% al Sud e solo del 24,6% nel  Centro-Nord;

                    il taglio degli aiuti e delle agevolazioni alle imprese si è concentrato al Sud; in valori assoluti  le agevolazioni sono scese (2001-2012) da 6,4 miliardi di euro a 1,2 miliardi con una variazione negativa nel Sud dell'80,5%, mentre nel Centro-Nord il calo è stato contenuto al 24,3%. In termini reali, il Centro-Nord che nel 2001 riceveva 3,7 miliardi di euro in agevolazioni oggi ne conserva 2,8, oltre il doppio del dato meridionale.

                    La spesa della pubblica amministrazione in conto capitale (Mezzogiorno in % sull'Italia) è scesa dal 40,3 del 2001 al 35,9 del 2012; gli investimenti in opere pubbliche al Sud sono passati da 11 miliardi  di euro ( valore 2005) nel 1970 a meno di tre miliardi nel 2012; essi al Centro-Nord ammontavano a quasi 14 miliardi nel 1970 e sono circa 11 miliardi oggi, ma la curva ha toccato il punto di massima nel 2008 con oltre 16 miliardi di investimenti.

 E' facile comprendere i motivi che hanno spinto l'informazione a privilegiare, nel dar conto del puntuale sforzo di analisi dell'istituto di via Pinciana, dati di maggior impatto mediatico come il mutamento demografico (già al centro del rapporto dell'anno scorso) o la crescita della povertà, ma è l'economia  a fornire la testimonianza più drammatica del progressivo degrado della situazione meridionale. I dati sulla disoccupazione giovanile e sui NEET confermano, purtroppo, recenti analisi, ma la vera novità è la constatazione che  per la prima volta nel secondo dopoguerra l'economia del Mezzogiorno, tradizionalmente più debole e meno proiettata ai mercati internazionali non ha reagito alla crisi in maniera anticiclica (minore intensità relativa della crisi al Sud che al Nord) ma ne è stata, invece, investita quanto e più delle aree forti. Perché e avvenuto? Una parziale spiegazione risiede nel confronto che, nel testo, viene instaurato tra Italia e Germania, i due unici grandi paesi europei in cui vi vi sono ancora diverse regioni in Convergenza. “In Italia” si afferma”è mancata la convergenza del Sud verso il Centro-Nord in tutto il periodo, sia pre crisi...che durante la crisi quando nel periodo 2008-2011, a fronte di una sostanziale tenuta delle regioni più sviluppate (+1,1%), le regioni del Mezzogiorno hanno registrato un forte calo (-3,1%). In Germania si rileva una minore distanza tra i tassi di crescita delle aree Convergenza e Competitività tedesche durante gli anni precedenti la crisi...ma soprattutto nel generale rallentamento durante gli anni della recessione un differenziale di crescita del PIL della stessa intensità (+5,9% contro +6,5%)”.  In sostanza la differenza tra i due paesi consiste nel fatto che mentre la Germania ha fatto della convergenza lo stimolo fondamentale del processo di riunificazione,  per quanto ci riguarda il processo di convergenza ha toccato il massimo all'inizio del nuovo millennio ma è subito ri-precipitato all'indietro per l'assenza di politiche nazionali di sviluppo efficaci. La veridicità di tale assunto è dimostrata dai dati della spesa in conto capitale e dalla constatazione che la spesa ordinaria per investimenti è stata progressivamente sostituita dai fondi cosiddetti aggiuntivi (ex FAS, ora FSC e fondi strutturali europei).  I numeri sono eloquenti: “rispetto al totale consolidato delle spese delle amministrazioni pubbliche – pari a 748 miliardi nel 2007 e a799 nel 2013- le spese in conto capitale valgono l'8,4% nel primo anno e il 5,4% nel secondo. Tra i due anni le spese correnti crescono del 10,4% e le spese in conto capitale si riducono del 31,7%. Questa riduzione si è particolarmente concentrata al Sud.” La spesa aggiuntiva, nonostante la  funzione sostitutiva che andava assumendo, si è anch'essa fortemente ridimensionata, passando da 16,5 miliardi nel 2001 a 13,3  nel 2007, ad appena 6,9 nel 2012, riducendosi di quasi due terzi in dodici anni. Per altro verso, il sistema Italia nel suo complesso- amministrazioni centrali, regioni e comuni- è stato incapace di spendere i fondi strutturali europei, tanto che  a 14 mesi dalla fatidica scadenza del dicembre 2015 ci restano da spendere 15 miliardi sui circa 60 (tra fondi strutturali e cofinanziamenti) finanziati nel lontano 2007.  Ecco la seconda risposta alla domanda che ci siam posti: è la politica nazionale ad aver mancato l'appuntamento con il Mezzogiorno. Il centrodestra di Berlusconi lo ha utilizzato come base di consenso elettorale incentivando politiche clientelari che hanno distrutto risorse e bruciato occasioni di sviluppo, il centrosinistra, che con Prodi, aveva elaborato politiche coerenti, ha avuto poco tempo,ma anche insufficiente volontà per realizzarle. Nel frattempo la crisi ha “desertificato” il tessuto industriale del Mezzogiorno, colpendone  soprattutto la parte più innovativa che aveva tentato di affacciarsi ai mercati internazionali. Nel Sud d'Italia, insomma, si sommano tre crisi: quella finanziaria e dell'economia reale che ha colpito la parte più moderna del suo apparato produttivo, la difficoltà crescente del sistema delle autonomie locali a far fronte alla flessione di trasferimenti dallo Stato senza ridimensionare i servizi di cittadinanza o aumentare il carico tributario, l'incapacità delle regioni- sia quelle ordinarie che le speciali- a governare processi di sviluppo di qualità nuova, come dimostra la vicenda dei fondi europei. Il Sud, pur essendo nel complesso andato indietro, non è tutto uguale: la quota del valore aggiunto dell'industria in senso stretto sul valore aggiunto totale va dal 13,3 della Puglia, all'8,2 della Sicilia, al fanalino di coda Calabria con il 7,6. Il rilancio di una politica industriale nazionale, legata all' Industrial Compact europeo, deve assumere il Sud come obiettivo fondamentale, invertendo le tendenze storiche dei processi di industrializzazione nel nostro paese.  Se mi è permessa un'osservazione critica al Rapporto, qui farei riferimento piuttosto che all'industria in senso stretto (la manifattura) all'apparato produttivo nel suo complesso e soprattutto ai suoi comparti più innovativi. Tuttavia non basta rilanciare le produzioni, perché bisognerà  anche far fronte alla diffusione della povertà e dell'emarginazione sociale: a tal proposito trovo interessante la riflessione proposta dalla Svimez sullo strumento di inclusione attiva (SIA) che nel Mezzogiorno coinvolgerebbe ben 653.000 famiglie. Le risorse necessarie sono ingenti (5,662 miliardi di euro a livello nazionale, di cui 2,658 per il Mezzogiorno) e non tutti sono d'accordo: a me non pare possibile rinunciarvi, se non si vogliono abbandonare a se stessi i più deboli. Siamo ad un punto della vicenda del Mezzogiorno in cui non esistono soluzioni semplici e non sarà concessa la second chance  se si sbaglia: perciò ci vogliono consenso sociale, politiche coraggiose e un governo che abbia voglia di cimentarsi sull'obiettivo della coesione economica e sociale del paese. Qui casca l'asino, con un presidente del Consiglio che  sembra non aver piena contezza della drammaticità della situazione e continua ad impegnarsi quasi esclusivamente nella gara degli annunci e nel pericoloso tentativo di destrutturare il sistema della rappresentanza sociale.

 di Franco Garufi

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