Le colpe di Renzi sull'articolo 18

2 ottobre 2014
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La principale colpa di  Matteo Renzi è di aver riportato indietro di 11 anni, al 2003, il dibattito sulle questioni del lavoro. Il presidente del Consiglio ha usato la sua enorme capacità comunicativa per convincere gli italiani di voler modificare una situazione ferma da oltre vent'anni e  portare avanti una  battaglia di rinnovamento contro le lobbies che frenano il paese ed impediscono la fuoriuscita dalla crisi.

La scelta dell'articolo 18 (sul quale- com'è noto- modifiche rilevanti introdusse Elsa Fornero ministro del lavoro del governo Monti) assume una funzione meramente simbolica e tenta di spostare l'attenzione dai contenuti del cosiddetto Job's act. Nel testo presentato dal Governo diverse cose sono equivoche: per esempio, si parla di contratto a tutele crescenti, ma non si chiarisce se esso sostituirà pienamente le numerose forme di contratti atipici attualmente esistenti, oppure se ad esse si andrà ad aggiungere.  E' questione tutt'altro che secondaria, dal momento che quasi il 90% dei contratti di lavoro stipulati negli ultimi anni è a tempo determinato. 

Confusione altrettanto grande si sta creando sulla questione degli ammortizzatori sociali: la cassa integrazione ordinaria, che  è pagata  da un fondo presso l'Inps finanziato tra lavoratori ed imprese,  non copre diversi settori economici in particolare le imprese più piccole. Alla crescita esponenziale delle crisi delle aziende escluse dalla Cig ordinaria si è fatto fronte in questi anni con la cassa integrazione in deroga, finanziata invece a carico dello Stato. Le norme sulle crisi  strutturali d'impresa e sulla mobilità sono state anche esse modificate dalla Fornero.

Alla carenza di fondi si è in parte fatto fronte con i fondi del piano di azione e coesione che oggi si rivelano insufficienti. Se è su questo che si vuole intervenire, dando vita ad un sistema di tutela del lavoratore nel mercato del lavoro invece che nella singola impresa, si sappia che necessitano risorse ben maggiori del miliardo e mezzo che sarà inserito nella legge di stabilità. Altrimenti si pigliano in giro le persone che vivono sulla propria pelle il dramma del progressivo sfaldamento dell'apparato produttivo, specialmente nella piccola impresa e nel terziario di mercato. Anche gli effetti del demansionamento sono sottovalutati da molti commentatori

. Chiariamo innanzitutto di cosa parliamo:le nuove norme consentirebbero alle imprese, in relazione alle esigenze di mercato, di abbassare la qualifica professionale- e perciò il salario- delle lavoratrici e dei lavoratori. Si tratta di un ribaltamento del diritto al  riconoscimento e della tutela del contenuto di conoscenze e di abilità collegate alla storia del singolo lavoratore. Ciò sarebbe in contraddizione con la filosofia giuslavorista italiana  che si regge sul principio che il lavoratore è parte più debole rispetto al datore di lavoro e, quindi, oggetto di maggior tutela.

Il demansionamento indebolirebbe ancor di più il lavoratore perché consentirebbe alla parte datoriale di mettere unilateralmente in discussione la sua  professionalità.   Non ne posso più di sentir ripetere la leggenda di un sindacato italiano arretrato e trinariciuto, che fa ormai parte della vulgata di Renzi. Il sindacato ha compiuto errori ed è stato indebolito dalla crisi,  ma resta la più grande forza sociale del paese e rappresenta milioni di uomini e donne che  vivono il dramma  della disoccupazione o cercano risposte ai problemi della propria condizione lavorativa.

Tentare di metterne in discussione la funzione rappresenta un vulnus per la coesione economica e sociale del paese. Renzi se ne convinca:  egli è uno dei leaders della socialdemocrazia europeo (malgré lui, verrebbe da dire) la quale ha ben presente nella sua memoria storica il ricordo dei disastri determinati dall'indebolimento della funzione del movimento sindacale. Illudersi di conquistare voto moderato indicando il sindacato come il nemico da battere è un errore che rischia di costar caro a Matteo Renzi, ma soprattutto all'Italia. Vengo al tema più delicato: l'articolo 18.

 Massimo Cacciari  ha affermato nel corso di  una trasmissione televisiva,  che esso rappresenta per la Cgil un totem.  Da persona che conosce ciò di cui parla (al contrario della sua interlocutrice Pina Picierno), il filosofo   ha usato il termine più appropriato. Traggo da Wikipedia la definizione di totem” in antropologia, un totem è un'entità naturale o soprannaturale che ha un significato simbolico particolare per una singola persona o clan o tribù, e al quale ci si sente legati per tutta la vita”.  Perché una legge del 1970 che si chiama Statuto dei Lavoratori è diventata  riferimento simbolico che rafforza l'identità di un'organizzazione che è chiamata a confrontarsi con uno dei passaggi di maggior difficoltà della sua storia?. 

Lo ha spiegato qualche giorno fa  Antonio Pizzinato,  che fu segretario generale negli anni '80, partecipando alle celebrazioni del 108° anniversario della Cgil: dietro l'articolo 18, ha detto, ci stanno gli oltre 500.000 lavoratori e lavoratrici licenziati per ritorsione negli anni della ricostruzione postbellica, stanno i reparti “Stella rossa” delle grandi fabbriche dove si confinavano i comunisti ed i socialisti, stanno i licenziamenti per motivi politici dei delegati sindacali, stanno i morti di Avola e la fine delle gabbie salariali. Con lo Statuto la Costituzione della Repubblica Italiana entrò nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e non consentiremo che ne venga cacciata.

Per questo sull'articolo 18 daremo battaglia e chiameremo alla mobilitazione lavoratrici e lavoratori: Renzi se ne faccia una ragione. Certo i diritti vanno rinnovati ed adattati ai cambiamenti intervenuti nel mondo produttivo ma non possono essere cancellati. Se si  vuol  davvero cambiare verso,  bisogna sfidare il sindacato sui terreni decisivi della crisi e del cambiamento, non tentare di archiviarlo tra i beni archeologici.

 di Franco Garufi

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