La Sicilia in declino tra mafia e politica

23 agosto 2014
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Mi si accuserà di disfattismo se paragono l'estate sciroccata della politica regionale a “Morte a Venezia”, racconto di Thomas Mann dal quale Luchino Visconti trasse un memorabile film? Il cerone sciolto dal sole impietoso sul viso del barone von Ascenbach, che muore guardando il giovane Tadzo, mi pare metafora non azzardata dei sussulti comatosi di una storia politica ormai inesorabilmente avviata alla conclusione. Il destino delle autonomie speciali, con l'esclusione di quella alto atesina tutelata da accordi internazionali, dipenderà dai futuri assetti istituzionali dell'Italia; ma il “quasi – stato” siciliano, motore e regolatore di ogni aspetto dell'economia e della vita regionale, quale fu concepito dallo Statuto del 1946, è un corpo in disfacimento che rischia di trascinare nella sua inarrestabile decadenza le pulsioni positive che pure nell'isola esistono e tentano di affermarsi. Alla Sicilia è mancata una classe dirigente dotata del coraggio di scommettere su un cambiamento radicale delle strutture amministrative e dell'impianto politico, quando all'inizio del nuovo millennio esisteva ancora tale possibilità. Oggi potrebbe essere troppo tardi: si è continuato per oltre un decennio a spendere, indebitandosi, risorse che non esistevano più, a gonfiare una macchina pubblica inefficiente e sottomessa ai politicanti, si sono sprecate tutte le occasioni di rilanciare un'idea virtuosa della Sicilia. Nessuno è innocente tra le forze politiche, e nelle rappresentanze economiche e sociali, anche se con diverse gradazioni di responsabilità, nell'aver portato l'isola alla china attuale, resa ancor più ripida dalla trasformazione della mafia in lobby affaristico-politica che è seguita alla stagione delle stragi. E' stata costruita una piramide dell'assistenza in cui gli striminziti assegni dei cosiddetti precari sostengono i privilegi dell'alta burocrazia e le truffe milionarie son l'altra faccia della distribuzione capillare di risorse regionali ai più diversi settori della società siciliana. La sinistra non è riuscita a rompere questa subalternità culturale ed ha alternato velleità di rinnovamento alla mancanza di una capacità di costruzione di iniziativa di massa che contestasse alle radici un modello di gestione della cosa pubblica destinato a cannibalizzare se stesso. Dei tre ultimi presidenti della Regione, due sono caduti sul terreno scivoloso del rapporto con la mafia, il terzo sta assolvendo alla funzione del bambino che gridò “il re è nudo”. E nuda davvero appare la vicenda regionale nel pieno del confusissimo scontro sul cosiddetto piano giovani e della stucchevole vicenda dell'eterno rimpasto; nuda di idee vivificanti e di prospettive per chi in Sicilia abbia ancora voglia di vivere e lavorare. Una discussione limacciosa, della quale mi occupo solo per evidenziare il rischio altissimo connesso all'evidente ed apparentemente insanabile confusione tra funzione amministrativa e ruolo dei responsabili politici di rami dell'amministrazione: siamo ad una rottura foriera di conseguenze devastanti. Come, a Venezia, le autorità attribuirono allo scirocco ciò che era invece conseguenza del diffondersi del colera, così, in Sicilia, si continua a far finta di non capire che solo un mutamento di paradigma può sottrarre l'isola al precipizio nel quale sta precipitando. Se il re è nudo, il potere che egli rappresenta non è più sacro; esso può essere sottoposto a critica, attaccato, destrutturato. E' bene che ciò avvenga e l'opera va continuata allo scopo di evitare che si ricompongano assetti di potere nei quali destra e sinistra diventano mere espressioni spaziali che camuffano una perversa logica di interessi trasversali. Occorre invece che attraverso il giovinetto Tadzo venga alla luce e si disfi il marcio che ci si annida in seno: malapolitica, burocrazia rapace, interessi affaristici. Il nodo sta, ancora una volta, nel rapporto tra la Sicilia e la politica nazionale Nei commenti al viaggio di ferragosto del presidente Renzi nella Sicilia delle crisi industriali, si confrontano due tesi contrapposte: da un lato l'attesa che, di nuovo, siano gli altri a risolvere i problemi di una Sicilia che si autoproclama sempre in credito nei confronti dello Stato dall'altro la tesi, assai più moderna anche se proposta da un ultraottantenne come Giuseppe Giarrizzo, che nel mettere in evidenza la debolezza concettuale del giovane leader democratico nei confronti del Mezzogiorno, pone l'accento sui problemi che derivano dalla qualità nuova dei rapporti tra la Sicilia, l'Europa e la proiezione di quest'ultima verso le grandi emergenze, ma anche le potenzialità, rappresentate dall'Africa e dal Medio Oriente. Perché ciò diventi realistico è però necessario ricostruire un brand, una vocazione che alla Sicilia manca da ormai oltre un secolo, dalla fine della stagione dello zolfo e degli agrumi. C'è chi su quest'idea sta lavorando positivamente: tra tanto parlare- a volte anche a sproposito- dei fondi europei- non si cita mai, per esempio, il buon lavoro che nella preparazione del nuovo ciclo di programmazione 2014-2020, si è fatto per individuare la strategia di specializzazione intelligente cui dovrà essere improntato il sistema produttivo siciliano. Ogni tanto, oltre che flagellarci è onesto dar merito a chi fa con serietà il suo lavoro. Finiamola di guardarci l'ombelico: ciascuno, per le forze e le possibilità che ha, si metta d'impegno a far i compiti per l'autunno drammatico che si approssima.
 di Franco Garufi

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