Antimafia retorica e antimafia dei fatti
La ribalta mediatica degli anniversari pubblici di solito produce qualche effetto non desiderato come quello di riaccendere i pseudo contrasti tra “antimafia retorica e antimafia dei fatti”. Anche quest’anno le celebrazioni del 23 maggio per la strage di Capaci non sono sfuggite al solito rito mediatico. Quello che non deve mai essere dimenticato, pur scontando qualche effetto passerella, è la presenza delle rappresentanze istituzionali quale indicatore di una loro adesione, pur simbolica, allo schieramento antimafioso. Fatto non scontato appena qualche decennio fa. Ma ancora più pregnante è il significato della presenza degli studenti, del mondo della scuola e del ruolo che quest’ultimo ha conquistato nella diffusione della cultura e della consapevolezza antimafiosa la cui specificità riesce ad emergere sempre anche da processi educativi genericamente dedicati alla legalità. È naturale che al ministro pro-tempore della pubblica istruzione si chieda, oltre la rituale dichiarazione antimafia, quali impegni concreti il governo, del quale fa parte, ha assunto e assume per potenziare la scuola pubblica e la sua funzione di agenzia educativa fondamentale affinché le nuove generazioni crescano con un più alto senso civico democratico. Occorre, dunque, distinguere sempre la retorica dalla partecipazione reale della gente agli anniversari, la parata dagli impegni concreti nell’azione di governo.
Ribadite queste ovvietà, suggerite dal buon senso e dalla facile constatazione che le polemiche interne uccidono l’antimafia più della mafia, cerchiamo di vedere oltre i cespugli della autoreferenzialità e della visibilità mediatica.
Primo, ognuno faccia correttamente il mestiere che ha scelto e il compito pubblico secondo l’ordinamento costituzionale. Il politico faccia politica per prevenire e correggere i fenomeni negativi come la corruzione e la presenza delle mafie nella società, nell’economia, nelle istituzioni e nei partiti, il magistrato processi i colpevoli di reati secondo la legge, il giornalista informi e ricerchi la verità e le notizie utilizzando anche le veline, ma non solo quelle. Pertanto, i processi si facciano nelle aule dei tribunali e non sui mass media, così la politica si faccia con la gente e non solo con i potentati.
Con questa logica, il 23 maggio, ho scelto di presenziare alla prima udienza del nuovo processo sulla strage di Capaci, apertosi a Caltanissetta nella qualità di presidente del Centro studi Pio La Torre ammesso come parte civile in rappresentanza della Sicilia offesa dalla strage. D’altre parte in ogni processo di mafia di questi ultimi anni il Centro studi, ove si è costituito, è stato ammesso nel nome della “polis” offesa dalla barbarie mafiosa. Oggettivo riconoscimento di un lungo lavoro politico culturale e non di sporadiche esibizioni mediatiche. Ciò mi ha consentito di partecipare, sempre a Caltanissetta, a un interessante convegno di approfondimento promosso dalla locale sezione della Scuola Superiore della Magistratura, dedicato alle vittime del 23 maggio su”L’amministrazione e la destinazione delle imprese sottratte al circuito mafioso”. Sulla gestione dei beni confiscati alle mafie, come diciamo da tempo, si gioca la credibilità dello Stato e della sua volontà quotidiana di dimostrare che non solo esso è più forte di ogni potere occulto, ma anche più efficiente. La velocità di destinazione dei beni confiscati al riuso sociale è il termometro di questa volontà. Se il dopo voto avrà un seguito anche per la semplificazione delle procedure di gestione, il riordino dell’Agenzia dei beni confiscati e della sua governance democratica, la prosecuzione produttiva dei beni da affidare ai lavoratori dipendenti associati o a società di privati, allora potremo sperare in una riduzione dello scarto tra confisca e riuso e accrescere la fiducia della gente.
Mi è sembrato un modo proficuo di ricordare tutte le vittime innocenti di mafia.
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