Sequestro, confisca e gestione dei patrimoni mafiosi, i nodi irrisolti

18 maggio 2014
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Con due lettere di accompagnamento dello scorso 10 aprile, indirizzate al presidente del Senato della Repubblica Pietro Grasso e alla presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, ha inviato al Parlamento la sua prima relazione “sulle prospettive di riforma del sistema di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, approvata il giorno prima dai 25 deputati e 25 che compongono la stessa Commissione Antimafia.

In cinque capitoli e cinquanta pagine dense e secche, viene affrontato un solo un tema fondamentale: la sottrazione ai mafiosi - e al loro sistema di potere, corruzione, ricatto, inquinamento e “consenso” - dei beni illecitamente accumulati, estorti alla collettività, riciclati e reimmessi nei circuiti economici e finanziari legali. Assieme all’introduzione nel Codice Penale del reato di associazione mafiosa (416-bis) il sequestro e la confisca delle ricchezze criminali rappresenta la spina dorsale della legge pensata e voluta strenuamente da Pio La Torre, approvata dal Parlamento italiano soltanto il 13 settembre 1982, neppure dopo la morte (30 aprile) del segretario del Pci siciliano, primo deputato in carica ad essere assassinato dalla mafia, ma solo dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre) con tutto l’orrore e l’indignazione dell’opinione pubblica che ne sono seguiti. E così che quell’insieme di norme antimafia è stato assunto dai legislatori col nome di legge 646 Rognoni-La Torre.

Si tratta dunque - la sottrazione e la gestione dei beni (soldi, titoli, azioni, mezzi, terre, imprese, proprietà) ottenuti nei modi più svariati e tenuti a vario titolo nome e prestanome - di una questione dirimente, di più: “la questione delle questioni”, per il conseguimento e il perseguimento di un’efficace radicale e duratura lotta alla mafia. Diversamente viene vanificato lo stesso impianto complessivo della legge Rognoni-La Torre e di tutte le sovrapposizioni e contrapposizioni che gli si sono accumulate addosso, in un sistematico proposito di aggiustamento ed evoluzione “in progress” che però è finito per diventare parossistico e ottenere lo stesso risultato: il vuoto come l’eccesso legislativo e procedurale produce l’impraticabilita, l’immobilismo e l’impotenza.

Oltre a mettere in risalto le luci e ombre della normativa e del recepimento delle leggi italiane a livello europeo, la relazione Bindi, nel “quadro normativo a livello nazionale”, dice infatti che “nell’ordinamento giuridico italiano assume oramai un peso sempre più rilevante la disciplina dell’azione di  contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata. Tuttavia essa è il frutto dello stratificarsi di norme elaborate a singhiozzo e spesso in contesti emergenziali che le prassi applicative hanno cercato di armonizzare con risultati non sempre soddisfacenti. Nonostante gli ambiziosi propositi, per unanime giudizio degli operatori, anche l’ultimo intervento del legislatore, con l’emanazione del decreto 159 del 2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) contiene ancora un corpus normativo disorganico e carente”.

Mentre l’aggressione ai patrimoni, nella fase delle indagini che porterà all’individuazione al sequestro e alla successiva confisca delle ricchezze attribuibili ai mafiosi indagati, “si svolge su iniziativa degli organi inquirenti nell’ambito di procedimenti giurisdizionali”, la destinazione dei patrimoni confiscati alla criminalità per un loro riutilizzo in favore della collettività “si svolge in sede amministrativa, oggi a cura dell’Agenzia nazionale per la gestione e destinazione dei beni, che dovrebbe perseguire gli scopi fissati dalla legge di iniziativa popolare 106 del 1996, unica nel suo genere nel panorama internazionale”, varata sulla scorta di una proposta organizzata dalle associazioni antimafia capeggiate da don Ciotti con la raccolta di oltre un milione di firme, “che dava priorità al valore simbolico del passaggio del bene confiscato dalle mani della criminalità a quello della collettività, degli enti pubblici e delle associazioni”.

Ancora la relazione Bindi: “La migliore risposta che può dare lo Stato è sottrarre alla criminalità i patrimoni e i beni illecitamente acquisiti e restituirli alla legalità e, salvaguardando l’occupazione, reinserire le aziende nel circuito economico sano evitando che le organizzazioni criminali possano inquinare i meccanismi di funzionamento del libero mercato … (ma) atteso che la tecnica dell’integrazione e della sostituzione operata nel tempo dal legislatore, per adeguare le norme alle mutate esigenze o sulla spinta di emergenze, ha prodotto sovrapposizioni e contraddittorietà e originato un corpus normativo disorganico nella materia …  (si comprende) come si sia perso progressivamente il valore simbolico della confisca e di un passaggio di proprietà dei beni dalla mafia alla collettività, alle associazioni, agli enti pubblici, per radicare la cultura della legalità e dimostrare la presenza dello Stato. (Invece) si è lentamente passati da una destinazione a fini sociali a una previsione generalizzata di liquidazione dei beni per soddisfare i diritti di credito dei terzi (creditori, dipendenti, enti previdenziali, erario) e i diritti reali di garanzia (banche, ipoteche) con presumibile diminuzione dei beni da destinare”.

 I dati sono inequivocabili. Dalle scarne tabelle contenute nella relazione emerge l’evoluzione-involuzione del contrasto alle mafie operato attraverso il sequestro, la confisca e la destinazione dei patrimoni illeciti. Per prima cosa si rilevano due fenomeni: “la forte diminuzione di nuovi procedimenti iscritti” (305 nell’ultimo periodo di rilevazione – settembre 2012-2013 – contro 682 dello stesso periodo 2011-2012 e 814 nel 2010-2011) con lo strano effetto che tutti gli incrementi avvengono nelle regioni del centro-nord e tutti i decrementi nelle regioni del sud e delle isole; e il progressivo allargamento territoriale, molto al di fuori delle regioni di tradizionale radicamento mafioso (133 a Palermo, 103 a Napoli, 84 a Reggio Calabria, 74 a Roma, 72 a Milano, 60 a Torino),

Stando ai dati forniti dal Ministero della Giustizia, su un totale di 113.753 beni oggetto di provvedimento, con 29.378 proposti e 30.582 dissequestrati, ci sono stati 48.946 beni sequestrati e confiscati, con 41.451 confische, di cui 21.204 passate dal sequestro alla confisca, 15.400 definitive e 4.847 con destinazione d’uso per un valore attributo di 859 milioni e mezzo di euro. Nei cinque anni dal 2009 al 2013 su 5.572 confische totali meno della metà (2.596) sono diventate definitive e appena 162 (!!!) sono state destinate ad usi pubblici e sociali: una percentuale pari al 6,24% sulle definitive e al 2,9% sulle totali. Insomma, ogni cento aziende e/o immobili confiscati soltanto sei vengono destinati e solo tre definitivamente. Se si guarda al totale dei beni censiti nella banca dati del Ministero le cose sono andate diversamente: 31,47% il rapporto tra destinazioni e confische definitive, 22,86% quello tra beni destinati e confische totali. La domanda sorge spontanea: cos’è successo negli ultimi cinque anni?

La relazione Bindi mette in evidenza che “per comprendere appieno il valore potenziale delle confische definitive, che potrebbero essere assegnate con un efficiente funzionamento dell’Agenzia, si può fare riferimento solo al dato delle confische con destinazione, perché è al momento dell’assegnazione che il bene viene effettivamente valutato nello stato di fatto in cui si trova. (Ma) anche solo con una valutazione miniale si può ipotizzare che ci siano beni già da destinare (confische definitive ancora senza destinazione) per un valore tra i due e i tre miliardi di euro, e altrettanto si può ipotizzare che giunga a confisca definitiva nei prossimi cinque anni”.

Dei 4.847 beni destinati, sottolinea Bindi, 816 (valore 171.057.786 euro) sono stati assegnati allo Stato (caserme, stazioni di polizia, automezzi, protezione civile, settore giustizia e Croce Rossa) e 4.031 (valore 688.450.381 euro) ai Comuni che hanno destinato 53 immobili a scuole, 220 all’emergenza abitativa, 600 ad attività sociali e culturali.  Totale di destinazioni effettive ascrivibile alle amministrazioni locali: 873. E gli altri 3.158? E di più, entrando nel dettaglio, che fine hanno fatto i 1.552 beni destinati nel distretto di Palermo (sindaco Orlando) 572 a Napoli (sindaco De Magistris) 96 a Salerno (sindaco De Luca) 510 a Reggio Calabria (ex sindaco e attuale governatore della Calabria Scopelliti) 227 a Bari (sindaco Emiliano) 264 a Roma (sindaco Marino) 502 a Milano (sindaco Pisapia) 53 a Torino (sindaco Fassino)?

Scrive Bindi: “Circa l’80% dei beni immobili confiscati viene destinato agli enti locali, in particolare ai comuni, che successivamente procedono (?) alla assegnazione degli stessi per il riutilizzo per finalità sociali nei confronti dei soggetti previsti dalla normativa vigente o ne mantengono la gestione destinandoli a uso istituzionale. Tra le principali criticità … vi è la sussistenza di gravami … l’occupazione sine titulo … la condizione strutturale degli immobili, spesso danneggiati o costruiti in modo abusivo … i vincoli del patto di stabilità applicati anche agli investimenti necessari per rendere fruibili i beni confiscati e la mancanza di risorse umane qualificate e specializzate in grado di applicare correttamente la complessa normativa in materia”.

Insomma: un quadro desolante, che diventa un vero disastro-dissesto economico e sociale se traslato alle assegnazioni e gestioni di aziende, imprese, ditte, esercizi e attività produttive – come ha denunciato puntualmente di recente il sindacato – messe in mano ad amministratori giudiziari (su cui sarebbe bene aprire un capitolo a sé, per indagare fatti e misfatti e condurre un’analisi seria sui risultati) a loro volta nel migliore dei casi vittime di norme e procedure contraddittorie e inapplicabili, più vicine alle controversie fallimentari (che portano quasi sempre alla chiusura delle attività e alla dissoluzione del tessuto produttivo e lavorativo) che alla sana gestione di imprese da salvare e salvaguardare anche dall’avidità e dalle miopi politiche delle banche, tanto pronte e bendisposte a erogare mutui e prestiti e a tenere ben aperti i cordoni delle linee di credito quando i  beni sono ancora nella disponibilità dei mafiosi, quanto indifferenti esose e maldisposte quando si tratta di finanziare le prospettive di permanenza in vita e sul mercato dei soggetti (lavoratori, cooperative, associazioni) subentranti nella gestione delle aziende confiscate.

Se non fosse che la speranza, e talvolta la disperazione, è l’ultima a morire, si dovrebbe parlare di una vera e propria bancarotta. La relazione non lo dice e non può dirlo, ma le conclusioni a cui non si riesce a sottrarsi è che il sovrapporsi di leggi su leggi, norme su norme, procedure su procedure, ha prodotto quel fenomeno che applicato alle bombe atomiche si chiama “follow up” e cioè una reazione a catena che distrugge oltre l’obiettivo precipuo e da cui neppure la parte sana è in grado di salvarsi.

Come se ne esce? L’intera questione è ormai talmente aggrovigliata se non compromessa che forse servirebbe un taglio netto. Intanto sulla gestione accentrata e inestricabile in cui è andata impantanandosi l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati, che non è riuscita neppure a dare vita alla famosa-famigerata banca dati dei beni di cui pure doveva essere intestataria e depositaria, tanto da andare avanti negli ultimi anni con il data-base ereditato dall’Agenzia del demanio.

In questa direzione sembra voler muoversi la relazione Bindi, che dice: “Si tratta di intervenire sia sulla legittimazione a proporre le misure sia sul procedimento applicativo, attraverso una diversa regolamentazione delle competenze, con l’istituzione di sezioni specializzate coincidenti con il distretto della procura distrettuale antimafia. Ma anche sulla semplificazione e velocizzazione dei procedimenti, anche attraverso l’adozione dei più moderni strumenti di comunicazione diretti a evitare il dispiego di mezzi e risorse”, fin troppo costosamente moltiplicati e inutilmente sovrapposti in una sorta di morsa mortale.

Lasciamo le tecnicalità ai tecnici, agli esperti di giurisprudenza, a chi ha saputo o cercato di correggere negli anni errori, disfunzioni, cattive interpretazioni e pessime intenzioni che hanno vanificato la portata sociale, culturale, civile, economica e politica della legge Rognoni-La Torre. Quello che possiamo fare noi è tenere gli occhi bene aperti, continuare a vigilare, e, per quello che ci è dato di vedere e di capire nella nostra esperienza concreta, come Centro studi e iniziative Pio La Torre, continuare a sollecitare il legislatore, gli enti locali, la magistratura, i cittadini e soprattutto i giovani a non demordere e a continuare la dura fatica e il sacrificio che hanno mosso uomini come Pio La Torre e Giovanni Falcone a credere che la mafia può essere sconfitta.   

 di Gemma Contin

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