Viaggiare verso la morte e celebrare la vita

Cultura | 16 gennaio 2017
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Chi era Chaim Soutine? Uno degli undici figli di un sarto, nato in un villaggio della Russia zarista, uno shtetl a un passo da Minsk, preso a botte in tenera età perché, invece di pensare a diventare ciabattino, s'ostinava a disegnare, in barba alla tradizione talmudica. Ebreo errante, pittore di tele abissali e vertiginose, anima disfatta e quintessenza del maudit – che visse a lungo in miseria, prima di conoscere il benessere grazie a un collezionista americano – compagno di bevute di Modigliani e degli altri artisti della Ecole de Paris, gang di maledetti dalla vita inesausta.

Per Soutine l'arte non è certo evasione ma necessità assoluta e totalizzante, senso dell'esistenza. E questo nocciolo coglie pienamente lo svizzero Ralph Dutli, classe 1954 nel romanzo “L'ultimo viaggio di Soutine” (255 pagine, 16 euro), proposto in Italia dalla casa editrice Voland, nella traduzione a quattro mani di Chiara Caradonna e Flavia Pantanella. Il romanzo è una splendida sorpresa, febbrile e in presa diretta, una storia on the road che non disdegna il visionario e l'onirico. Saggista, poeta e traduttore, Dutli ha spiegato in un articolo (reso in italiano dal meritorio sito www.grafias.it) come s'è accostato all’esperienza romanzesca. «Il romanzo – scrive Dutli – è a volte una dura prova per l’autore, e se il lettore alla fine lo legge con piacere o forse persino con trasporto, la prova è superata a metà. L’altra metà la mostrerà il futuro, ed è impietoso, che nessun autore si faccia illusioni. Il romanzo è una scuola di scetticismo».

Il lettore de “L’ultimo viaggio di Soutine” metta da parte lo scetticismo, perché l’opera ha le carte in regola per proiettarsi nel futuro da robusta certezza. I dolori di un'ulcera gastrica costringono il protagonista (strano tipo, considera il latte una medicina) a tornare repentinamente a Parigi dal borgo di Chinon sulla Loira, è l'agosto 1943, e la capitale francese già occupata dalla Wehrmacht, dove un intervento può salvargli la vita: teme d'essere catturato dalla Gestapo e, per schivare i posti di blocco, il suo viaggio procede fra strade sterrate e vie secondarie, a bordo di un carro funebre (troppo pericoloso viaggiare in ambulanza) guidato da due becchini; lì il pittore fa i conti con l'infanzia, l'amore, la Parigi bohemien (dai dorati anni Venti al declino coinciso con la guerra), la malattia, la vita raminga degli ultimi anni, fra incontri rievocati o solo fantasticati. È un bizzarro delirio di immagini affastellate – e la morfina c'entra, of course – che spaziano dal borgo natio di Smilovichi alla Montparnasse dei pittori, alle sue donne Gerda Groth e Marie-Berthe Aurenche (detta Ma-Be), alla riflessione sul dolore e sulla miseria, e sul perché Dio li permetta. È però, a suo modo, una celebrazione della pienezza dell'esistenza, un tripudio di colori, colori che hanno la meglio anche quando, a un certo punto, fa capolino un paradiso bianco...

 di Salvatore Lo Iacono

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