Verso il voto europeo con un occhio allo sviluppo

21 aprile 2014
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La campagna per le elezioni europee del 25 maggio dovrà fare i conti con il diffuso sentimento popolare che considera l'euro causa principale del malessere che percorre l'Europa e attribuisce a Bruxelles le responsabilità della condizione di crisi in cui versano molti paesi dell'Unione, in particolare quelli del Sud. Un disagio che si esprime attraverso la crescita dei populismi, dal Movimento 5 stelle in Italia al fronte nazionale di Le Pen in Francia alla preoccupate situazione ungherese. Il rischio è di buttar via l'acqua sporca con il bambino, estendendo all'intera costruzione europea il giudizio negativo sulle politiche di austerità che hanno costretto le economie dei principali paesi nella gabbia di ferro del risanamento dei conti pubblici e del pareggio di bilancio, impedendo quella politica di investimenti pubblici per la crescita che, sola, consentirebbe al vecchio continente di difendere il suo modello sociale e contemporaneamente rilanciare la sua economia. Il cambiamento radicale della politica economica è il vero nodo da sciogliere per l'Europa. Bisogna innanzitutto tornare ad investire nella ricerca, nella conoscenza, nelle politiche industriali: perché ciò divenga possibile è necessario individuare le risorse.

Nel 2010 l'economista britannico di orientamento laburista Stuart K. Holland, riprendendo la proposta lanciata nel'93 da Jacques Delors mirata a sostenere la competitività e la crescita dell'economia europea, propose l’emissione degli Union Bond, titoli europei finalizzati al rilancio degli investimenti a cui sarebbe stato opportuno associare il trasferimento di una parte dei debiti sovrani degli stati membri in debito sovrano europeo. L'anno successivo Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio lanciarono gli eurounionbond, facendo una sorta di sintesi tra l’originaria proposta di Delors e più recenti progetti mirati soprattutto ad assicurare assistenza finanziaria ai paesi con debito pubblico a rischio insolvenza, attraverso la creazione di un Fondo Finanziario Europeo che emetterebbe eurounionbond per tremila miliardi di euro di cui 2.300 destinati alla rilevazione del debito pubblico nella direzione della sua riduzione al 60% e i rimanenti 700 miliardi da destinare al finanziamento di grandi investimenti europei anche per unificare e far crescere grandi imprese europee.

La contrarietà della Germania ha impedito la realizzazione di tali idee, avvitando la gestione della crisi dei debiti sovrani sul piano inclinato del riequilibrio finanziario, con il risultato di distruggere in Grecia lo stato sociale, di condannare l'Italia e la Spagna alla mancata crescita, di far aleggiare perfino sulla Francia l'ombra della crisi da debito sovrano. Insomma, sono stati anni di occasioni perdute, nel corso dei quali le istituzioni comunitarie e la tecnocrazia che domina la Commissione hanno finito per assumere le sembianze di santuari di un rigore che produceva crescenti difficoltà economiche e sociali delle popolazioni dell'Europa. Inoltre, la complessità dei regolamenti comunitari ha enfatizzato le difficoltà a spendere di paesi come l'Italia che hanno utilizzato poco e male le risorse dei fondi strutturali europei. Il manifesto elettorale del PSE, che mette al primo posto l'occupazione e che afferma solennemente che è ora di far ripartire l'economia, denuncia che il salvataggio delle banche è costato 1,6 trilioni di EUR, prelevati dalle tasche dei contribuenti e si propone di far sì che le banche non azzardino più con la vita dei cittadini.

Poco di questo dibattito arriva all’elettorato italiano perché le posizioni estreme e l’antipatia generale verso le istituzioni europee rendono oggettivamente meno visibili quanti tentano di spostare la discussione sul merito. Il merito, per esempio, è ricordare che l’economia italiana dal 2007 è caduta del 9% dopo un decennio di stagnazione In un recentissimo volume, il giornalista di Repubblica Federico Fubini mette a confronto la crescita del PIL in Francia, Spagna ed Italia: “se facciamo il livello del PIL nel 2002 …uguale a 100, oggi quello della Spagna è a 115, dopo essere arrivato a 120 nel picco pre-crisi del 2008, il livello della Francia è invece 113 i suoi massimi da quando esiste l’euro…l’Italia nel 2007 era salita a quota 107 …(nel 2013) l’economia è tornata ai livelli di circa quindici anni fa…” Non è difficile trarre la conclusione che l’uscita dall’euro finirebbe per peggiorare ancora la situazione. L’Italia in realtà ha bisogno di più Europa, ma di politiche europee diverse da quelle attuali. Per questo bisogna valorizzare le due novità costituite dai più incisivi poteri assegnati al Parlamento Europeo e dalla possibilità di indicare il candidato alla presidenza della Commissione. Occasioni che non vanno sprecate e che sarebbero fortemente indebolite da un’assemblea in cui fosse alta la presenza di posizioni contrarie alla costruzione di un’Europa dei diritti e del lavoro. Cosa ha da aspettarsi la Sicilia dal 25 maggio? Nessun miracolo, ché sarebbe infondata l’attesa che l’Europa risolva problemi le cui responsabilità risiedono innanzitutto nella sua classe dirigente, ma di certo una proiezione in una dimensione che può fare della Sicilia il perno della presenza culturale dell’Unione nel Mediterraneo, ma anche un terreno decisivo per la sperimentazione di politiche innovative nel campo delle tecnologie innovative, dell’agricoltura di qualità, delle energie alternative, del sistema dei trasporti e della logistica. Perciò non bisogna sciupare l’occasione offerta dal prossimo ciclo di programmazione dei fondi strutturali: ma su questo torneremo.

Franco Garufi



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