Una legge di stabilità dedicata al Sud
Una ri-crescita del sistema Italia potrà realizzarsi senza mutare la politica verso il Meridione? Esiste ancora una percezione politica della gravità sociale ed economica del divario Nord-Sud? Qualche mese fa il ministro per la coesione, prof Carlo Trigilia, presentando il rapporto della Fondazione Res, premetteva che prima di tutto bisognava tenere in vita il malato (cioè il Sud) con misure antirecessive basate su interventi mirati all’allargamento del credito attraverso il Fondo nazionale di garanzia, in particolare per le piccole e medie imprese, su finanziamenti a tassi agevolati per l’acquisto di macchinari, servizi di ricerca e d’informatizzazione delle imprese e soprattutto con l’orientamento concertato tra Stato e Regioni per modernizzare il sistema infrastrutturale e creare le condizioni di uguaglianza di fruizione dei servizi essenziali: sanità, assistenza, istruzione.
La legge di stabilità risponde a pieno a queste condizioni ritenute preliminari per uscir dalla recessione e dall’impoverimento generale delle famiglie italiane?
Secondo i calcoli elaborati, su dati Istat, dal Diste e presentati qualche giorno fa dal Centro Curella, dall’inizio della crisi, 2008, il Mezzogiorno ha perso il 12% del Pil Nazionale, l’8,5% dei consumi, il 7,1% degli investimenti, 600mila posti di lavoro e si ritrova l’11% in più del tasso medio di disoccupazione.
Tutto ciò rende più complicato e difficile il recupero a breve termine della domanda e della produzione, sopratutto se non ci saranno interventi aggiuntivi a quanto previsto attualmente dalla legge di stabilità, considerato insufficiente da tutti- sindacati, imprenditori, sindaci-.
Disoccupazione generale al 12,5%, quella giovanile al 41,2%, scoraggiati che diventano sempre di più, cifre pesanti che al Sud diventano drammaticamente più gravi, segnalano una situazione esplosiva che alimenta populismo, antipolitica e antieuropeismo.
Sicuramente per il Sud non è sufficiente il trasferimento da parte dello Stato il 4% del Pil pari a 60 miliardi, i fondi strutturali europei destinati con procedure farraginose, senza eliminare la frantumazione politica della spesa ed elevare la qualità del sistema istituzionale: dal funzionamento della pubblica amministrazione alla valorizzazione del capitale sociale e umano, dal funzionamento della giustizia all’erogazione dei servizi fondamentali- sanità, assistenza, istruzione-.
Su quest’ultima tema oggi A Sud’Europa dedica il numero e non è un caso.
Infatti, dopo anni di divisione i sindacati della scuola si ritrovano uniti a manifestare affinché la legge di stabilità inverta il corso distruttivo perseguito dal centrodestra e dalla diabolica coppia Tremonti-Gelmini. La loro “riforma” va a regime ora e l’Italia scopre le voragini create da essa nel suo sistema scolastico e universitario. Dopo 150 anni dall’Unità la scuola sembra aver esaurito la sua funzione di promozione sociale e di garanzia di pari opportunità. È stato calcolato che siamo tornati al divario del 1861 tra scuola del Nord e del Sud. Per asili nido e i servizi della prima infanzia, in Emilia la copertura è pari al 29% del fabbisogno, in Campania del 2,7%; in Sicilia l’abbandono scolastico del 26,5%, nel Trentino del 9%, senza calcolare la percentuale dei Neet (dei giovani che non studiano né lavorano). In questa condizione non basta fermare i tagli alla spesa per la scuola come previsto dalla legge di stabilità, occorrerà incrementare il Fondo finanziario ordinario (Ffo), i fondi per riequilibrare i servizi scolastici e assicurare il diritto allo studio, colmare il divario esistente, per la riduzione dei docenti e dei tecnici, tra la scuola delle aree urbane, sovraffollate, e delle aree montane, soppresse. Non è più procrastinabile ridare dignità economica al personale docente, tecnico e amministrativo. Per eliminare la compressione del diritto allo studio non basta stanziare appena il 4,8% del Pil per il sistema scolastico che colloca l’Italia al 22° posto tra i paesi europei.
Il governo Letta senza larghe intese saprà approfittarne per dare uno slancio alla sua opera per fare uscire il paese dalla recessione? Saprà imporre all’UE il cambio di passo auspicato per tornare a crescere? Saprà recuperare la fiducia dei cittadini, sempre più arrabbiati, verso le istituzioni democratiche? Molto dipenderà dal comportamento del gruppo dirigente che uscirà dalle primarie del Pd, ma anche dal Governo che non avrà più i voti di Berlusconi, però nemmeno i suoi condizionamenti.
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