Una felicità tutta da cercare
Pubblichiamo un commento di Danilo Amione, docente di
Storia del Cinema a Ragusa, a proposito
del film “Mauro c’ha da fare” di
Alessandro De Robilant, interamente girato in Sicilia, con maestranze ed attori
siciliani. Si tratta di una produzione del tutto indipendente, già apprezzata
da diversi critici, ma sottoposta ad una ‘censura di mercato’ (distribuzione,
esercizio) che impedisce al film la meritata diffusione.
Appunti su “Mauro c’ha da fare”, un film di Alessandro
Di Robilant
Di Danilo
Amione
****
Mauro ha 31 anni, due lauree ed è disoccupato. Come
dire neanche il minimo cui si possa aspirare nella vita, ed il massimo per chi
vuole farci un film. Sì perché per il suo ritorno nelle sale, a sei anni
dall’efficace neo-neorealista “Marpiccolo”, il regista piemontese Alessandro Di
Robilant, coadiuvato nello script da Alessandro Marinaro, sceglie un soggetto
pienamente coincidente con il concetto stesso di cinema. Se è vero,
infatti, che la settima arte è racconto del reale veicolato da sintesi di
spazio e tempo, la vicenda di Mauro si insedia proprio dentro questo paradigma
semiotico. Un disoccupato vive sempre dentro un tempo vuoto, che deve riempire
necessariamente. Ciò si amplifica a dismisura se egli è anche intellettualmente
molto ricco e ancora più se egli è giovane e dunque con energie da
spendere e non controllabili. Mauro si trova così ad occupare il proprio tempo
invadendo lo spazio di chi gli sta intorno non bastandogli più il proprio. A
farne le spese saranno i familiari, la fidanzata, l’amico di una vita, la
cameriera, il sindaco del paese in cui vive,e persino un direttore di banca.
Il tutto in un crescendo paradossale e ossessivo, e
per questo esilarante nei toni, che fanno del protagonista Mauro Magazzino il
degno erede del Michele Apicella di morettiana memoria. Anche in questo caso,
dunque, il protagonista del film di Di Robilant riempie un ennesimo spazio,
quello lasciato vuoto dall’alter ego del regista romano, oramai collocato dal
suo autore in un doloroso dimenticatoio(non è un caso che gli ultimi tre film
di Moretti parlano solo di morte).Dunque, quella di Mauro, interpretato da uno
straordinario Carlo Ferreri qui al suo esordio da protagonista, è una vicenda
che rimette in campo un non riconciliato, un irriducibile della sopravvivenza
ostinato nel non darla vinta a nessuno. Un personaggio coraggioso nella sua
ossessività e maniacalità, dal peso specifico certamente universale, in questo
aiutato da una mimica alla Buster Keaton, anche se la sua storia si
svolge nel sud Italia (il film è girato e ambientato per intero nel catanese).
Mauro si dibatte all’interno di un nucleo familiare piccolo borghese frustrato
(peraltro la famiglia è una delle costanti di tutto il cinema di Di Robilant)
che per la prima volta si rende conto che gli studi e i relativi sacrifici di
tutti non garantiscono più niente (e la madre è anche e significativamente
un’insegnante).
Il progressivo prendere possesso della casa
accompagnato dal suo sax che ne sottolinea l’incipiente solipsismo, gli sguardi
contemplativi che dalla sua finestra egli lancia antonionianamente sul mondo e
le “vessazioni” cui sottopone la malcapitata domestica, sono tutti sintomi di
un malessere esistenziale in cui Mauro finisce per precipitare. La sua
fidanzata, Laura, interpretata da una strepitosa Evelyn Famà, anch’essa
disoccupata stanca e sfiduciata, lo molla per un attempato e laido impiegato
“valutatore” del Nord, finendo per esaurire le sue velleità di carriera stracca
su un divano in attesa di un figlio. Il piccolo paese in cui Mauro vive è
metafora del mondo di tutti. Ed è questo mondo indifferente a tutto che Mauro
vuole punire più che cambiare. Dal sindaco che non si occupa dei suoi
concittadini, simbolo di un potere autoreferenziale e fine a se stesso, privo
di spinte ideali e perciò inutile, al direttore di banca che si ostina a non
concedere il mutuo a una giovane coppia con figlio e senza lavoro. Mauro ha una
laurea in economia ed una in filosofia, due visioni del mondo in apparenza
lontane ma in realtà fortemente complementari. Lo sguardo con cui egli guarda
il mondo è perciò completo e consapevole. Ed è questo che lo mette contro
tutti, come testimoniato dalla interviste metacinematografiche e ironiche che
Di Robilant, parafrasando genialmente I’Allen di “Prendi i soldi e
scappa”, mette in campo.
Alla fine la passione di Mauro per i piselli, dunque per la natura, elemento metastorico capace a volte di regalare felicità, quella che egli pensava di avere perso per sempre, diventa sintomatica di una chiusura definitiva ma salvifica con la realtà che lo circonda. Così dopo aver provato a lavorare in una officina di Torino (luoghi certamente simbolici, anche se qualcuno tende oggi a dimenticarsene) costrettovi dal padre ormai disperato, Mauro realizzerà il sogno della sua vita, coltivare piselli in Canada, grazie al lascito di una zia lì residente. Come dire, solo i sogni non muoiono mai, soprattutto al cinema(Capra docet)!.Finale geniale riassuntivo di un film che ci tiene ben saldi sulla terra mentre vi voliamo sopra. Insomma Di Robilant ha costruito un film che in altri tempi si sarebbe definito “materialista dialettico”, con la sola variante, che va a suo merito, di averci sollevato un pò il morale facendoci anche ridere. Evidentemente la lezione di Chaplin a qualcuno, fortunatamente, ancora arriva. Al punto da regalargli , ad oggi, l’opera più riuscita della sua carriera.
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