Un romanzo proletario e anti-nazista a Manhattan
Una riscoperta necessaria. Michael Gold, che in realtà si chiamava Itzok Isaac Granich, non meritava l’oblio. La tenerezza e la compassione con cui ha descritto le strade in cui è cresciuto, unite allo sguardo fortemente critico rivolto al sistema capitalistico, sembrano roba lontanissima e demodé, vecchia di quasi un secolo. Eppure questo scrittore, autore a trentasei anni, di un solo romanzo – come Tomasi di Lampedusa, come Pasternak o Emily Bronte – scrittore politico, che nel resto della sua esistenza si dedicò a un impegno diretto tra le fila del partito comunista (fino a derive filo-staliniste), ha scritto pagine che lasciano solchi addosso.
Il libro, “Ebrei senza soldi” (215 pagine, 17,50 euro), è tornato in libreria, edito da Castelvecchi, nella versione di Alessandra Scalero. L’autore statunitense di origini romene firma un’introduzione datata 1935 (il romanzo era stato pubblicato cinque anni prima), in cui si scaglia contro la mistificazione nazista: «Hitler è un demagogo che ha falsificato la storia […] La grande maggioranza degli ebrei nel mondo, oggi, non è composta da banchieri miliardari, ma da indigenti e lavoratori». Scrive di loro, Gold, della classe operaia e dei poveri del ghetto di New York, in un racconto proletario, non sempre politicamente corretto, un’autobiografia romanzata, incentrata principalmente sull’infanzia nel Lower East Side di Manhattan: lì s’intrecciano i destini di immigrati sbarcati nel nuovo mondo, vagabondi, gangster, ebrei ortodossi, uomini e donne che lavorano anche più di dodici ore al giorno, bambini, bande di ragazzini che rubano frutta, giovani prostitute in kimono rosso, venditori ambulanti, un pappagallo specializzato in maledizioni in lingua yiddish e… cimici.
È la
storia ben calibrata (col solo neo di un finale un po’ precipitoso)
di un ghetto prima della seconda guerra mondiale, come in altre parti
del mondo. Con la differenza che gli ebrei che lo riempiono sono in
fuga, principalmente dall’Europa dell’Est, e approdano in quella
che considerano la terra promessa, nella culla della democrazia, in
un angolo non meno povero e misero dalle terre d’origine, dove
sopravvivere non è più semplice e credere nel sogno americano è
dannatamente complicato, perché chi nella spietata economia
capitalista non primeggia rischia di diventare una vittima: più
facile è semmai ribellarsi al Dio degli avi e all’ordine
costituito e attendere un nuovo Messia, la rivoluzione.
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