Un fiume di sangue unisce Medio Oriente ed Europa
Nel corso del 2016 vi sono stati in Turchia 100 attentati con 558 morti (ai quali vanno aggiunti i caduti nell'attacco alla discoteca Reina); dei morti circa 190 sono attribuiti ad azioni dell'Isis, il cosiddetto stato islamico. Tra il 2014 e il 2016 sono state 273 le morti causate da attività jihadiste in Europa. Secondo quanto è stato accertato dalle inchieste, gli autori degli attacchi erano in maggioranza giovani musulmani, in molti casi nati e cresciuti in paesi europei, per lo più provenienti da fasce sociali disagiate, con scarso livello di istruzione, basso tasso di occupazione e alto livello di criminalità. Un ricercatore norvegese (L'Espresso) ha individuato quattro cause principali dell'espansione del jihadismo nel nostro continente: la persistenza di conflitti armati in molte zone del Medio Oriente, nel Nord Africa, nell'Asia del Sud; la presenza di un vasto bacino di reclutamento tra le seconde e terze generazioni di immigrati nelle periferie urbane di molti stati europei, l'alto numero di europei di religione musulmana (circa 5000) che tra il 2014 e il 2016 hanno scelto di andare a combattere in Siria (i “foreign fighters”) e che tornando si trasformano spesso in “imprenditori del terrore”, l'accesso ad Internet e l'utilizzo estremamente sofisticato della rete in cui gli esperti informatici islamisti si sono specializzati.
La galassia delle organizzazioni islamiste è complessa e affonda le sue radici nelle conseguenze della seconda guerra mondiale che nel Medio Oriente si connotarono con la creazione dello stato di Israele e con processi di decolonizzazione che costruirono nuove entità statuali quasi esclusivamente in base agli interessi delle potenze ex coloniali. Mi limito qui a parlare dell'Isis o IS (che è l'acronimo tradotto nella nostra lingua di stato islamico dell'Iraq e della Siria), definito anche Daesh. Di osservanza sunnita, il jihadismo auspica la restaurazione del Califfato universale; la sua prima azione eclatante fu l'assassinio nell'ottobre 1981 del presidente egiziano Anwar al-Sadat, cui seguì il movimento mujahidin (combattenti del jihad) nell'Afghanistan invaso dai sovietici. Gli Usa addestrarono e finanziarono quel movimento, così come oggi sono l'Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo persico i principali sovvenzionatori dell'estremismo islamista
La pratica terroristica non colpisce solo l'Europa: lo stesso giorno dell'attentato al “Reina” l'esplosione di un'autobomba ha salutato a Bagdad la visita del presidente francese Hollande. Secondo i dati dell'Unami (missione assistenza Onu per l'Iraq) 6878 civili sono stati uccisi in Iraq nel 2016 (Ansa 3/1/2017), naturalmente non tutti attribuibili agli islamisti, che tuttavia rappresentano in quel paese la principale agenzia del terrore. Nell'attentato di Capodanno ad Istanbul comparirebbe per la prima volta come attentatore un cinese di etnia Uiguri, popolazione di origine turca e di religione islamica presente nel Nord-Ovest della Cina. In Libia solo a dicembre scorso si è conclusa la battaglia di Sirte che il Daesh aveva progressivamente conquistato tra il maggio 2015 e il maggio 2016, trasformandola nella base più importante fuori dall'Iraq e dalla Siria. Sulla Libia si potrebbe discutere a lungo: quella di Gheddafi era certamente una dittatura corrotta e feroce ma l'intervento militare del 2011, su pressione francese ma con copertura Nato e partecipazione anche italiana, ha destabilizzato un'area mediterranea di grande delicatezza.
Antichi questi errori dell'Europa: la Siria è uno stato semi artificiale nato dalla sistemazione post coloniale imposta dalla Gran Bretagna, composto da un caleidoscopio etnico e confessionale. Sulla costa è concentrata l'enclave alauita, da cui proviene il clan Assad, i sunniti occupano un'ampia fascia che va dal confine turco sino a quello giordano, a nord-est stretti tra Turchia e Iraq sono prevalenti i curdi. Complicano il quadro diversi gruppi minoritari: drusi, sciiti, cristiani, turkmeni, ecc. L'assedio di Aleppo ha portato alla sconfitta dei sunniti, contro cui si sono schierati iraniani, libanesi e russi (che hanno condotto i bombardamenti della città). Gli americani, che erano contro Saddam, hanno finito per puntellare il governo di Damasco quando si sono resi conto di cosa c'era dall'altra parte (Limes 15/12/2016). Il conflitto siriano sta producendo una ridislocazione delle alleanze internazionali, per esempio il rapporto nuovo tra la Turchia e la Russia tradizionalmente concorrenti in quell'area. In realtà entrambi quegli stati si collocano in continuità con la loro storia più antica: la rinnovata vocazione asiatica della Turchia che Erdogan vuole re-islamizzare e gli interessi geo-politici della Russia post-sovietica.
L'assassinio dell'ambasciatore russo ad Ankara e il fastidio evidente del presidente neo eletto rispetto alla decisione di Barack Obama di espellere 35 diplomatici di Mosca sono tasselli di questo mosaico ancora in gran parte celato. Come si modelleranno tali alleanze con l'insediamento di Trump alla Casa Bianca? L'Europa è dentro questa guerra per diversi motivi: tra gli altri per gli interessi strategici, anche di carattere energetico, che alcuni dei paesi dell'UE mantengono in quell'area e per la forte caratterizzazione anti-occidentale del messaggio islamista. Una guerra che non finirà presto, purtroppo, e che potrebbe produrre cambiamenti di segno negativo nelle nostre società. Il vecchio Continente come afferma il demografo Massimo Livi Bacci (“In cammino” Bologna 2010) dovrà “far fronte ad una situazione di scarse risorse umane ormai consolidata dalle tendenze demografiche dell'ultimo mezzo secolo”. In tale contesto le migrazioni sono un fenomeno strutturale che le nostre società dovranno prepararsi ad affrontare con politiche adeguate.
La principale defaillance dell'Unione Europea consiste proprio nell'incapacità di assumere a livello europeo le scelte sulle politiche dei migranti che non possono essere affrontate dai singoli paesi. Le migrazioni hanno costi umani spaventosi: Livi Bacci cita un dato di Fortress Europe che ha contato quasi 20.000 morti certificate nel tentativo di approdare in Europa dal 1988. E si tratta di una stima ampiamente per difetto. Attenzione a non dare spazio al tentativo dei demagoghi e dei professionisti della paura di utilizzare il terrorismo per chiudere le nostre società ad ogni apporto esterno. E' il tratto comune della nuova destra radicale europea e dei movimenti “populisti”. Si sta creando un clima pesante anche in un paese tradizionalmente tollerante come l'Italia:la moltiplicazione dei CIE non è la soluzione né ai problemi posti dal terrorismo né alla necessità di governare le migrazioni costruendo politiche credibili di accoglienza ed integrazione. Non faccio il buonista: se un intellettuale come Corrado Augias riconosce che siamo in guerra, non si può nascondere la testa sotto il cuscino. Ci sono esigenze serie di controllare il territorio e i potenziali luoghi di radicalizzazione. Tuttavia non possiamo confondere fenomeni assolutamente diversi: la stragrande maggioranza dei musulmani nulla ha a che fare con l'estremismo e tanto meno con il terrorismo, mentre non è dimostrato – tranne rari casi - che i canali di ingresso dei migranti, spesso controllati dalla criminalità organizzata, siano utilizzati a fini terroristici.
A mia conoscenza, l'unico caso noto di un terrorista che è entrato in Europa attraverso la rotta mediterranea è quello dell'attentatore di Berlino Anis Amri, che era già noto alla polizia tunisina come criminale comune. Tra l'altro pare che la sua radicalizzazione sia avvenuta durante la permanenza in Italia (probabilmente in Sicilia). La sfida vitale per la nostra cultura è il coraggio di non rinunciare alla società aperta e tollerante che abbiamo costruito negli ultimi decenni. L'Islam, come ogni altra religione, non è un nemico e i musulmani non sono terroristi. Ognuno ha il diritto di credere nel suo Dio; e anche quello di non credere in Dio.
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