Trent'anni fa l'offensiva stragista di cosa nostra

6 febbraio 2022
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Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; confermati i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Rispondevano del reato di minaccia a un corpo politico. Politici e carabinieri assolti, mafiosi condannati. Per i giudici d’appello, dunque, la trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, almeno quella descritta dall’accusa - quale manovra che agevolò il ricatto di Cosa nostra allo Stato - non ci sarebbe stata, se non intesa come dialogo per fermare le stragi e finalizzato - come quello avviato con Vito Ciancimino - a successi investigativi quali la cattura di Totò Riina, senza alcuna concessione. La minaccia della mafia c'è stata, ma non è stata veicolata alle istituzioni le quali non avrebbero ceduto. Una tesi, quella del patto tra politici, carabinieri e mafiosi che avrebbe, secondo l’accusa, accelerato la strage di via D’Amelio, ma che era già stata messa in discussione dalla Cassazione che aveva confermato l’11 dicembre 2020 l’assoluzione di Calogero Mannino, e dunque la decisione della Corte d’appello di Palermo, del 22 luglio 2019, che aveva ritenuto «indimostrato che Mannino abbia operato pressioni per la revoca del regime del carcere duro, secondo la tesi accusatoria che lo vuole come input, garante, e veicolatore alle autorità statali della minaccia contenuta nella trattativa». 

 Tre poliziotti, intanto, restano sotto processo con l’accusa di essere i tasselli della complessa strategia di depistaggio delle indagini su via D’Amelio. Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre '92 a dicembre '94, ha parlato di «prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi». Non lo si fece. 

 Oscura, lunghissima e dolorosa. Un’onda di silenzi e misteri che ancora non si è arrestata. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Trent'anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e indagini. Un attentato contro Giovanni Falcone era temuto, quello contro Borsellino apparve dolorosamente annunciato: entrambi si consumarono in un contesto di incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di «colossale depistaggio».


 "AVEVANO GIA' INIZIATO A FARLI MORIRE» 

 Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull'autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata - con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. 

 Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: «Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli». A un certo punto, raccontò Borsellino, «fummo noi stessi a convincerlo di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura». La mafia «ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia». 

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo. 


 TRATTATIVE. VERDETTO RIBALTATO E LA «PROVA REGINA» 

 Dopo 30 anni restano molte domande. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, datata 20 aprile 2018, che aveva condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, è stata ribaltata il 23 settembre scorso, quando la Corte d’assise d’appello di Palermo, dopo tre giorni di camera di consiglio, nell’aula bunker del Pagliarelli ha assolto il senatore Marcello Dell’Utri, «per non avere commesso il fatto», e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, «perchè il fatto non costituisce reato». 


 IL 'QUATER' E’ CASSAZIONE

 Il 5 ottobre scorso tocca alla Cassazione dire l’ultima parola sul Borsellino quater: ergastolo per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, sì alle condanne dei falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta per calunnia: confermata la decisione emessa dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel novembre 2019.Se per Pulci è stata confermata la condanna a 10 anni di reclusione, per Andriotta - condannato in appello a 10 anni - i giudici del Palazzaccio hanno disposto solo un lieve sconto di pena, pari a 4 mesi, assolvendolo da un episodio di calunnia ai danni di Vincenzo Scarantino, e dichiarando prescritti altri episodi di calunnia sempre riferiti a Scarantino. Sostanzialmente confermato dunque il verdetto dei giudici d’appello, i quali avevano condiviso le conclusioni contenute nella sentenza di primo grado, nelle cui motivazioni, depositate nell’estate 2018, si sosteneva che, sulle indagini relative alla strage di via D’Amelio ci fu «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Anche il rappresentante della procura generale aveva sottolineato la «mostruosa costruzione calunniatrice che rappresenta una delle pagine più vergognose e tragiche». 


 L'ULTIMO PADRINO 

 A ottobre 2020 la Corte d’Assise di Caltanissetta aveva condannato Matteo Messina Denaro all’ergastolo, riconoscendolo tra i mandanti delle stragi del 1992 di Capaci e via d’Amelio. Prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del '91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista. Il capomafia, inoltre, inviò a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del '92. «Prima di consegnarsi in carcere il 1 febbraio, lo storico boss Mariano Agate lasciò le chiavi di un appartamento utilizzato da altri boss durante la missione romana del '92 in cui doveva morire Giovanni Falcone», ha detto il pm. Il piano, per una serie di ragioni, venne rinviato. Sarebbe stato compiuto appena qualche mese dopo, il 23 maggio dello stesso anno.    E trent'anni dopo deve essere scritto ancora molto su questo tragico e decisivo capitolo della storia della Repubblica.



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