Tra Libia e Medio Oriente, la posta in gioco per russi e iraniani

Politica | 26 gennaio 2020
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Torniamo a scrivere di Libia ed Iran per la seconda volta in due settimane. La conferenza di pace sulla Libia voluta e organizzata dalla cancelliere tedesca Angela Merkel a Berlino domenica 19 gennaio con grande passerella di presidenti, primi ministri, ministri degli esteri è stata la classica montagna che ha partorito il topolino: un accordino, poco più di una road map per una fragilissima tregua sul terreno. Tutti da costruire il superamento delle divisioni tribali e delle pesanti interferenze di potenze straniere, il ripristino di una entità statuale sull’intero, sgarrupato paese, l’embargo delle armi in un territorio dove i kalashnikov abbondano quasi in ogni casa, l’impossibile ma irrinunciabile disarmo delle decine di milizie armate sul campo. Si è anche ipotizzata - ma senza troppa convinzione - una missione militare a marchio UE di interposizione tra le forze governative di al-Sarraj e quelle del generale Haftar. In barba alla tregua i combattimenti - sebbene su scala ridotta, scaramucce e spari isolati di cecchini - continuano non lontano da Tripoli anche in queste ore.

Le prossime settimane ed i prossimi mesi ci daranno indicazioni sulla tenuta della tregua e sui progressi del lavorio diplomatico della cosiddetta “comunità internazionale” o, se volete, dei paesi “interessati” alle sorti della Libia. A febbraio Angela Merkel sembra orientata a convocare una seconda conferenza per monitorare lo stato dell’arte degli impegni assunti nella prima.

Intanto la chiusura dei rubinetti dei giacimenti petroliferi e dei terminali per il caricamento del greggio sulle petroliere e del metano nei gasdotti, insomma la sospensione dell’attività estrattiva ordinata disinvoltamente da Haftar, sta procurando non poche conseguenze. Sull’approvvigionamento dei paesi che estraggono con la compartecipazione delle loro compagnie od importano l’oro nero libico. Ed all’economia locale che da anni esporta solo petrolio e migranti clandestini. La sospensione dell’attività estrattiva causa in Libia una perdita di almeno 55 milioni di dollari al giorno.

Trasferiamoci nell’altro epicentro della crisi nella fibrillante fascia Mediterraneo-Medio Oriente: l’Iran. All’indomani dell’assassinio da parte degli americani del generale dei pasdaran Soleimani e della reazione di Teheran che ha colpito due basi a stelle e strisce in Iraq con un attacco di missili “preavvertito” – l’attenzione si sposta sulla seconda risposta. Meno emotiva ma ben più preoccupante: il definitivo abbandono da parte della Repubblica islamica dell’accordo sul nucleare, prima ancora abbandonato da Trump, e la ripresa della sua corsa per l’approntamento di ordigni nucleari.

Nei due contesti diventa allora fondamentale andare al cuore dei problemi e capire in Libia a cosa puntano Turchia e Russia, i due principali paesi-padrini dei duellanti. Mentre nel segreto degli impianti militari iraniani, scavati decine e decine di metri sottoterra in chissà quali massicci rocciosi del vasto territorio, diventa fondamentale comprendere a che punto sono gli scienziati nucleari e l’industria bellica degli ayatollah nella realizzazione di testate atomiche e di vettori per recapitarle a domicilio. Perché né gli USA, né Israele, né l’Arabia Saudita, né l’Europa e, in fondo, neppure Russia e Cina, sebbene non uscirebbero mai allo scoperto su di un tema spinoso come questo, vogliono che l’Iran si doti di armi nucleari. E di sicuro almeno i primi due o tre stati dell’elenco, magari con la Gran Bretagna pronta ad aggregarsi, sarebbero persino disposti ad una guerra preventiva pur di impedirlo.

Per questo approfondimento (molto complesso sul piano tecnico-militare, soprattutto il secondo) facciamo ampio riferimento documentativo a due dettagliate ricostruzioni a firma del direttore Gianandrea Gaiani pubblicate sul magazine specializzato “AnalisiDifesa.it” rispettivamente il 16 gennaio scorso con il titolo “Gli interessi di Mosca e Ankara in Libia” e, pochi giorni prima, il 9 gennaio, con il titolo “Se l’Iran punta di nuovo sulle armi nucleari”. I due commenti erano stati pubblicati in precedenza il primo sul quotidiano “Il Mattino” di Napoli il 14 gennaio e il secondo da “Il Mattino” e da “Il Messaggero” di Roma il 7 gennaio.

Iniziamo dal ruolo di Russia e Turchia in Libia. Cosa le distingue? Cosa le accomuna?

“Mosca ed Ankara hanno molti interessi in Libia, alcuni convergenti ed altri legati a valutazioni nazionali di tipo strategico ed economico. Russi e turchi hanno innanzitutto interesse a colmare il gap lasciato dal progressivo disimpegno di Washington nell’area del Mediterraneo allargato a cui non ha fatto seguito un maggiore ruolo né dell’Unione Europea né dei singoli stati europei, Italia compresa. Ribadendo l’intesa bilaterale già rivelatasi indispensabile a “congelare” il conflitto siriano, Russia e Turchia sono inoltre determinate ad accreditarsi come potenze stabilizzatrici in diverse aree di crisi”.


A cosa punta la Russia

“Mosca si è più volte rammaricata di non aver impedito, con un veto alle Nazioni Unite, l’operazione militare condotta nel 2011 dagli anglo-franco-americani e poi dalla NATO contro la Libia di Gheddafi, causa della destabilizzazione del Nord Africa e del Sahel.

Pur riconoscendo il governo di Fayez al-Sarraj, la Russia ha firmato nel gennaio 2017 un accordo di cooperazione militare con il generale Khalifa Haftar, siglato a bordo della portaerei “Admiral Kuznetsov” che attraversava il Mediterraneo rientrando dalla missione nelle acque della Siria.

Da allora il ruolo russo di supporto all’Esercito nazionale libico di Haftar è cresciuto, in sinergia con Egitto ed Emirati Arabi Uniti, pur mantenendo un profilo contenuto. A differenza della Siria, in Libia Vladimir Putin non ha mai inviato truppe regolari ma sono circolate molte notizie circa il ruolo dei contractors della compagnia militare privata Wagner, impegnata ad offrire mezzi, manutenzione e anche supporto militare alle milizie di Haftar con una forza stimata oggi in 2mila uomini. Mosca ha spesso negato la loro presenza ma nei giorni scorsi Putin si è limitato ad affermare che “se ci sono russi in Libia non rappresentano lo stato e non sono pagati dalla Russia”.

L’intesa con Haftar mira quindi ad ampliare l’influenza di Mosca nel Mediterraneo e in Africa (da alcuni anni in ascesa) – osserva Gaiani – favorendo la penetrazione in Cirenaica in termini di concessioni assegnate alle compagnie energetiche russe ma anche in termini militari, con la possibilità di utilizzare il porto di Tobruk come base per la flotta russa che oggi nel Mediterraneo dispone solo della base di Tartus, in Siria.

Il porto di Tobruk veniva utilizzato dalla flotta sovietica al tempo della Guerra Fredda ma oggi permetterebbe a Mosca di assicurare una presenza navale costante nel Mediterraneo Centrale”.

Ecco, oltre al petrolio, un secondo “richiamo irresistibile” per Putin: il porto di Tobruk in Cirenaica come nuova base nel Mediterraneo per la sua flotta. Dal 1971 la flotta da guerra prima sovietica e poi russa del Mar Nero e del Mediterraneo fa base nel porto siriano di Tartus. Nel mese di gennaio del 2017 i governi di Mosca e Damasco hanno formalizzato un accordo per estendere il controllo russo sulla installazione portuale militare di Tartus per altri 49 anni e concedere alla Russia la sovranità sul territorio della base. Questo permetterà alla Russia di espandere le potenzialità dell’installazione per potere ospitare fino ad 11 navi da guerra, incluse quelle a propulsione nucleare. Non sempre è stato adeguatamente rimarcato che è anche per tenersi stretta quella presenza che le forze armate russe, in particolare l’aviazione, sono impegnate direttamente in Siria dal 30 settembre 2015 a fianco del presidente Bashar al-Assad contro l’Isis e contro tutte le altre forze ribelli al governo di Damasco. Pur di non dimettersi a seguito di moti di piazza della “primavera araba” siriana contro il regime, il presidente ha scatenato una repressione sfociata nel 2011 in una guerra civile intricata, terribile e sanguinosa, tuttora in corso, che ha letteralmente distrutto il paese e causato centinaia di migliaia di morti. L’”amicizia” tra Mosca e Damasco risaliva già ad Hafiz al-Assad, padre di Bashar, il non meno spietato presidente andato al potere nel 1970 con un colpo di mano interno al partito Baath.

Ora la flotta da guerra russa disporrà nel Mediterraneo anche del porto libico di Tobruk. Che dista mille chilometri scarsi dalle nostre coste siciliane.


A cosa punta la Turchia

Veniamo adesso alle ambizioni del non meno smanioso leader turco Erdogan. “Nella visione strategica e politica della Turchia, assumere un ruolo guida a Tripoli significa riportare l’influenza turca su territori un tempo occupati dall’Impero Ottomano che dalla Libia venne cacciato dall’Italia con la guerra del 1911-12. Il “neo-ottomanesimo” di Recep Tayyp Erdogan sta infatti riportando i turchi a ricoprire un ruolo chiave in diverse regioni dall’Asia Centrale al Medio Oriente all’Africa Orientale, con nuove basi militari aperte in Sudan, Somalia, Qatar.

L’aiuto militare turco che ha probabilmente salvato Tripoli dalla sconfitta non è certo gratuito: Ankara ha già presentato un conto di 2,7 miliardi di dollari a Fayez al-Sarraj ed è concreta la possibilità che le compagnie energetiche turche prendano piede in Tripolitania insidiando il primato della italiana ENI. Di certo il memorandum turco-libico sulle Zone economiche esclusive, firmato il 26 novembre scorso a Istanbul, apre la strada alle compagnie turche per la ricerca e lo sfruttamento del gas nelle acque di fronte alle coste libiche.

In termini ideologici poi non va dimenticato che Erdogan è il grande sponsor internazionale (finora grazie ai petrodollari del Qatar) dei “Fratelli Musulmani”, movimento islamista molto influente all’interno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico, in Tunisia (partito Ennhada) e un tempo anche in Egitto dove dopo la rimozione del presidente Mohammed Morsi ad opera dei militari è stato posto fuorilegge. Non a caso lo sbarco dei militari turchi a Tripoli è stato accolto con entusiasmo dal Gran Muftì di Tripoli, Sadiq al-Ghariani, massima autorità religiosa della Tripolitania”.

E – lo ricordiamo – non a caso l’Egitto è schierato in Libia con il generale Haftar e contro il governo di al-Sarraj.

Ma in Libia, ancora una volta, la presenza turca si incrocia con uno dei nervi scoperti dell’Europa: la questione migratoria. Su cui Ankara aveva già ottenuto dalle casse dell’Unione Europea finanziamenti miliardari come pagamento per l’accordo finalizzato a “sigillare” la rotta orientale dei migranti. Quella che dall’Asia e segnatamente dalla Turchia approda ai Balcani, agli stati orientali dell’Unione, alla Germania, ai paesi scandinavi. Si replica in Libia? E’ tutto da vedere un secondo “appalto”, ben più complesso di quello nella madrepatria, da parte della Turchia in Tripolitania sulla questione migranti. Ad ogni modo – osserva “AnalisiDifesa” – l’egemonia turca nella Libia occidentale consentirà ad Ankara di sostenere i movimenti legati alla “Fratellanza Musulmana” in tutta la regione ma anche di esercitare pressioni sull’Europa sfruttando i flussi migratori illegali. Finora Erdogan ha ricattato la UE con la minaccia di aprire i suoi confini europei a milioni di migranti lungo la cosiddetta “rotta balcanica”. Domani la sua forte influenza su Tripoli potrebbe consentirgli di rinnovare la minaccia anche lungo la “rotta libica” che impatta direttamente sulle coste meridionali italiane”.


L’ossessione iraniana di dotarsi di armi atomiche

Cambiamo scenario e trasferiamoci nella millenaria Persia, terra di antica e potente civiltà. Qui le sanzioni americane hanno messo in ginocchio il paese che tuttavia non è uno “stato fallito” come la Libia ma una grande e popolosa nazione di 82 milioni di abitanti. Sospesa tra oscurantismo religioso e progresso tecnologico, fra opprimente tradizione e voglia di modernità e libertà delle fasce più giovani ed istruite. Nella Repubblica islamica il regime degli ayatollah picchia duro quando i giovani scendono in piazza a protestare. I pasdran, i guardiani della rivoluzione, hanno il grilletto facile, sparano. Le carceri sono piene di migliaia e miglia di oppositori. Secondo Shirin Ebadi, ex magistrato licenziata dal regime oscurantista perché è inammissibile un giudice donna, avvocato, pacifista, difenditrice dei diritti civili, scrittrice, premio Nobel per la pace nel 2003, “il regime non è mai stato debole come in questo periodo”. Ha sperperato miliardi di dollari nell’esportazione della sua rivoluzione islamica in Libano, Iraq, Siria, Yemen e in faraoniche spese militari quando quelle risorse potevano essere ben diversamente spese per dare una prospettiva di crescita economica agli strati sociali più in difficoltà del popolo iraniano. Gente che vorrebbe vivere in pace senza l’angoscia perenne di propaganda, minacce e scazzottate con il mondo (nei giorni scorsi Teheran ha minacciato anche i paesi europei, accusati di andare troppo a rimorchio di Washington). Solo che il nemico esterno - il “Grande Satana” ossia gli Stati Uniti - con le sue azioni e con le sue sanzioni che colpiscono i gerarchi al potere ma in fin dei conti anche la povera gente, finisce per provocare l’effetto di ricompattare, sull’onda del nazionalismo sotto attacco, regime e popolazione. Paradossalmente alimenta il consenso. Quella che manca all’opposizione iraniana, oltre ad un leader di peso, è una strategia. Manca una visione unica dell’alternativa da costruire al regime, frammentati come sono gli oppositori tra laici che si vorrebbero liberare dell’opprimente cappa del clero al potere e coloro che non vogliono uscire dal solco dell’osservanza stretta dell’islam, pur senza gli eccessi e giri di vite che da oltre quattro decenni mette in atto la teocrazia padrona del paese.

“L’uccisione a Baghdad del generale Qassem Soleimani ad opera delle forze militari statunitensi ha indotto l’Iran a rilanciare la minaccia atomica con l’arricchimento dell’uranio su vasta scala. Già più volte reiterata da quando l’amministrazione Trump ha denunciato il trattato JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) del 2015 con cui il regime degli ayatollah rinunciava alla “bomba” e mai violato da Teheran secondo i rapporti dell’Agenzia dell’ONU per l’energia nucleare (AIEA). Da un lato l’Europa preme sull’Iran affinché non receda dal trattato ma anche i paesi del Vecchio Continente, pur se con scarso entusiasmo, hanno alla fine aderito al diktat di Washington che ha imposto pesanti sanzioni economiche a Teheran che hanno colpito soprattutto il settore dell’export petrolifero. Donald Trump, ma anche il segretario generale della NATO (di cui fanno parte tre potenze nucleari), Lens Stoltenberg, hanno ribadito nelle ultime ore che “l’Iran non potrà mai avere un’arma nucleare”.

Prima dell’entrata in vigore del JCPOA, nel luglio 2015, gli esperti occidentali consideravano l’Iran ormai vicino alla realizzazione di ordigni nucleari: pochi anni secondo molti analisti statunitensi, appena un anno secondo gli israeliani mentre c’è chi non esclude che Teheran possieda già alcuni ordigni atomici.

Rapidi progressi sembravano trovare conferma nella considerazione che già prima del 2010 il programma atomico di Teheran era stato sensibilmente ritardato dal cyber-attacco realizzato congiuntamente da Stati Uniti ed Israele con l’impiego del virus Stuxnet, che paralizzò il programma di arricchimento dell’uranio nella centrale di Natanz.

Sulla valutazione delle capacità iraniane di produrre armi atomiche influiscono da sempre anche pressioni politiche e interessi strategici tenuto conto che il Pentagono considera la disponibilità di tali armi in mano agli ayatollah un fattore di profondo squilibrio degli assetti geopolitici del Medio Oriente mentre Israele ritiene una simile ipotesi del tutto inaccettabile per la sopravvivenza dello stato ebraico. Gerusalemme dispone di un vasto arsenale atomico stimato in oltre 150 testate e decine di missili balistici (anche se non ha mai ammesso ufficialmente di possederlo) ma la sua limitata estensione geografica impone di impedire ad ogni costo ai suoi nemici di disporre di armi nucleari per la semplice ragione che la deflagrazione anche di una sola bomba atomica di tipo tattico cancellerebbe l’intero paese”.

Sono scenari da incubo già solo a parlarne. Si scherza con il fuoco e con la vita di decine di milioni di persone. Ma vediamo più in dettaglio su quali vettori (missili) potrebbe contare Teheran. “Una conferma indiretta della capacità iraniana di realizzare rapidamente armi atomiche la si evince dallo sviluppo del suo programma missilistico che punta alla realizzazione di missili balistici con gittata sempre più estesa come quelli della serie Shebab. Vettori che hanno già raggiunto una gittata di 4mila chilometri che nei modelli in fase di sviluppo potrebbero raggiungere 10 mila chilometri: armi che hanno un valore strategico solo se equipaggiati con testate nucleari. Del resto i programmi balistico e nucleare hanno visto ampie sinergie tra Iran e Corea del Nord, un altro “stato canaglia” il cui regime considera l’arma atomica e i missili balistici come deterrente contro attacchi esterni. Una cooperazione incentrata sulla tecnologia nucleare, su missili a lungo raggio, sull’impiego di propellente solido per aumentare l’autonomia ma anche sulla produzione di testate atomiche, cioè sulla capacità di installare armi atomiche a bordo di missili balistici”.


Se l’Iran diventa una potenza nucleare

“Se l’Iran divenisse una potenza nucleare sarebbe molto più rischioso attuare contro di esso azioni militari, anche di tipo limitato o dimostrativo. Del resto proprio la caduta dei regimi di Saddam Hussein e di Muammar Gheddafi, che avevano rinunciato al nucleare, ha indotto negli anni scorsi Iran e Corea del Nord ad accelerare i rispettivi programmi atomici”.

L’ufficializzazione del possesso di ordigni nucleari stipati in più siti segretissimi del territorio persiano darebbe il via ad una incontrollabile proliferazione nucleare in tutto il Medio Oriente, una delle aree politicamente e militarmente più instabili del pianeta.

Se Teheran arrivasse a disporre di armi nucleari nulla potrebbe impedire una “corsa alla bomba” in tutta la regione, specie presso i suoi rivali regionali sauditi ed emiratini. Il 9 maggio 2019 il ministro degli esteri saudita Adel Al Juber ha dichiarato in una intervista alla CNN: “Se l’Iran dovesse acquisire capacità nucleari noi faremo tutto il possibile per fare lo stesso”.

“L’Arabia Saudita ha finanziato in passato lo sviluppo delle armi atomiche pachistane – conclude Gaiani - ed è molto probabile che Islamabad possa fornirle al suo sponsor in caso di necessità. Dal 2008 i sauditi hanno inoltre acquisito un numero imprecisato di missili balistici a medio raggio cinesi DF-3 poi sostituiti con i più moderni DF-21 in grado di raggiungere il territorio iraniano e che secondo alcune fonti potrebbero potenzialmente ospitare testate atomiche.

Una proliferazione nucleare che Stati Uniti e Israele vogliono a tutti i costi scongiurare e non a caso le proposte di Washington per aprire nuovi negoziati sul nucleare iraniano prevedono che Teheran rinunci anche ai missili balistici a medio e lungo raggio. Ipotesi finora esclusa categoricamente dall’Iran, che dispone da tempo di testate missilistiche chimiche e biologiche e che ha sempre considerato i missili balistici, posti sotto lo stretto controllo dei pasdaran, un assetto strategico non negoziabile”.


Conclusioni

La posta in gioco in Libia va ricercata nell’integrità della nazione o nel suo temuto smembramento, nel petrolio, negli appetiti in loco di superpotenze e potenze regionali. In Iran la posta in gioco – la determinazione dell’aggressiva Repubblica islamica di diventare l’ennesima potenza nucleare e, all’opposto, la determinazione di USA, Israele e Arabia Saudita di non consentirlo – è ben più esplosiva. E’ potenzialmente apocalittica nei suoi sviluppi. Perché – importante sottolinearlo – ha ragione da vendere Papa Francesco quando sostiene (ad Hiroshima e Nagasaki, nel viaggio in Giappone, nel mese di novembre del 2019) che “l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche. Saremo giudicati per questo”. Specie in contesti in cronica agitazione, conflittuali come quelli persiano-arabici. Dove sarebbe molto alta la tentazione non solo di possedere un arsenale nucleare ma di farne uso. Come strumento bellico estremo in un assetto che combina ideologia-politica-religione con una spinta tanto fondamentalista che a tratti sconfina nel fanatismo.

 di Pino Scorciapino

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