Francesco, il papa che pensava agli ultimi
Società | 21 aprile 2025

Un cielo gonfio di pioggia si riflette sul selciato grigio di un’enorme piazza vuota. Un uomo solo, vestito di bianco, avanza con passo lento ma deciso, spezzando l’immoto silenzio scandito solo dal ritmo delle gocce che riempiono pian piano le pozzanghere.
Lui è Papa Francesco. Quella piazza, davanti alla Basilica di San Pietro, fu pensata da Bernini come un abbraccio universale. Ed è proprio quell’abbraccio che tutti, credenti o meno, in quel momento abbiamo sentito nostro.
In quel crepuscolo romano c’eravamo tutti. Non parlava l’Apostolo, ma l’Uomo. Un uomo capace di rendere comprensibile anche ciò che i teologi avevano reso distante e inaccessibile.
Con il nome che scelse, Francesco, ci aveva già indicato il cammino: umiltà, vicinanza, semplicità. La sera della sua elezione, mentre un alto prelato lasciava il Vaticano in limousine, lui (il Papa) saliva su un pullman, come gli altri, per tornare a Santa Marta. È lì che è rimasto, fino all’ultimo giorno del suo cammino terreno.
Francesco ci ha insegnato che quando fuori piove, dobbiamo pensare a chi non ha un ombrello.
Ci ha ricordato che la Chiesa voluta da Cristo, quella delle origini, l’abbiamo tradita più volte in duemila anni di storia.
Ci ha mostrato che siamo diventati anestetizzati dal benessere, dall’egoismo, capaci di scartare chi è fragile: il diverso, il povero, l’anziano, l’invalido.
Eppure, raccogliendo i cocci di un’umanità smarrita, dilaniata da guerre e giochi di potere, è stato anche capo di Stato, quando serviva. Ha gridato dal balcone la sua indignazione per i crimini contro l’uomo.
La vera libertà – quella che nasce dalla fede – l’ha incarnata senza paura. Ha detto no a chi calpestava i diritti umani, ha rifiutato incontri con i potenti senza scrupoli, ha redarguito senza timore. È stato coerente con l’insegnamento evangelico e con i principi etici e morali della Chiesa.
Proprio come il Concilio Vaticano II insegna nella Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo.”
Una Chiesa che si fa vicina, moderna, ma che non rinuncia alla sua essenza.
E poi c’è stato il custode del creato, colui che ci ha insegnato che la terra non è un possesso da sfruttare, ma una madre da rispettare.
Papa Francesco ha parlato al cuore del mondo quando ci ha ricordato che il pianeta “non è un’eredità ricevuta dai nostri genitori, ma un prestito da restituire ai nostri figli” (Laudato si’, 159).
Con l’enciclica Laudato si’ ha elevato la cura dell’ambiente a gesto di fede e responsabilità, mostrando come “tutto è connesso” e che non ci può essere giustizia tra gli uomini senza giustizia verso la terra.
“Il grido della terra e il grido dei poveri”, ci diceva, sono lo stesso dolore.
E nel suo sguardo – semplice, concreto, universale – ci ha chiesto di custodire la bellezza fragile del creato come si custodisce ciò che si ama davvero.
Non tutti lo hanno apprezzato per la sua teologia – anche se basterebbe leggere i suoi scritti per ricredersi – ma in molti lo hanno amato per il suo essere padre, fratello, uomo.
E oggi ci lascia il suo ultimo, grande dono: il Giubileo della Speranza. Una parola che ci guiderà, anche ora che lui non c’è più. Come disse in quella sera uggiosa, quando la speranza sembrava lontana – citando il Vangelo secondo Marco –: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. (Mc 4,40)
È nella tempesta che ci scopriamo fragili. È lì che cominciamo a interrogarci. E oggi, ancora una volta, nella tempesta… ci siamo.
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