Totò Cuffaro: «In carcere ho ritrovato Dio»
L'ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, condannato a sette
anni per favoreggiamento alla mafia, in una lettera-testimonianza pubblicata in prima pagina
da Avvenire, il quotidiano dei vescovi, racconta la «disumanità» delle strutture detentive e di
come in carcere abbia ritrovato Dio. «Quattro anni fa - spiega il direttore del quotidiano
Marco Tarquinio - non avrei neanche pensato di poter pubblicare in prima pagina un testo di
Totò Cuffaro». «La lettera-testimonianza del detenuto Cuffaro, del 'potentè caduto e
condannato a sette anni di carcere..., mi ha però colpito sin dalle prime battute - aggiunge -
e, infine, mi ha scosso e anche commosso».
Nella lettera, che porta la firma «Totò Cuffaro, Detenuto nel carcere di Rebibbia», l'ex
governatore della Sicilia scrive: «Caro direttore, il Papa è voluto essere uno di noi, il suo
amore e la sua Misericordia sono Cristo. Il carcere non è luogo sconsacrato: 'Dove dimora il
dolore il suolo è sacrò. Cristo arriva e porta pace alla disperazione degli uomini che sono al
varco del confine, nelle urne del pianto. Arriva e libera gli spiriti legati alle catene. Cristo è
uno dei nostri, fatica con noi per riscattare il nostro passato e per ripristinare i nostri giorni.
Lo sentiamo camminare accanto a noi, consola la nostra libertà crocifissa, e a ogni passo
sentiamo che il giogo diventa più sopportabile. Lui è stato crocifisso, ma quando vede
crocifissi noi detenuti, diventa Cireneo, ci aiuta a portare il peso della croce e cammina
insieme a noi e ci rende creature nuove e forti».
«Così - aggiunge Cuffaro -, sulle macerie delle parole e degli ascolti,
dentro il deserto del carcere, poveri in mezzo ai poveri e tutti nella miseria, abbiamo sperato
ancora. È proprio dentro questo vivere che abbiamo capito che è cambiata la nostra storia e
la nostra vita». «È in questo luogo - prosegue l'ex presidente della Regione - che molti di noi
hanno trovato l'appuntamento decisivo per l'incontro fondamentale con Chi eravamo convinti
di avere incontrato e invece non conoscevamo a fondo. Credevamo di averlo trovato nella
liturgie a cui avevamo preso parte, di averlo raggiunto nei pellegrinaggi che avevamo fatto, di
esserci stati accanto in meditazione nei ritiri spirituali, ma oggi possiamo dire che l'incontro
che veramente ce lo ha fatto conoscere è accaduto qua dentro. In questo luogo, senza
cercarla nè aspettarla abbiamo sentito la Sua voce: inconfondibile. In questo luogo che tenta
di far scomparire l'uomo Lui ci ha svelato la sua dimensione essenziale». «È disumano -
scrive Cuffaro - voler annullare l'uomo. Nessuna disumanità è più grande che far scomparire
la persona che ognuno di noi è: precisamente questa è la disumanità del nostro tempo. E lo
Stato oggi dà per legge, come mandato al carcere, proprio questa disumanità, mortificare e
far sparire l' 'iò dei detenuti. Ma un avvenimento che ha la forma di un incontro può salvare.
L'incontro fa percepire e fa scoprire il senso della propria dignità. E siccome la personalità
umana è composta di intelligenza, di affettività e di libertà, in quell'incontro l'intelligenza si
desta in una volontà di verità nuova e l' 'iò incomincia a fremere di una affezione alla vita, a
sè, agli altri, che prima non aveva».
«Ma l'avvenimento - aggiunge Cuffaro - deve essere riconosciuto ed è
necessario 'un io che lo accolgà, soprattutto se è un 'iò mortificato qual è quello del
detenuto, che ha però un cuore liberamente disponibile ad accoglierlo. Senza cuore, senza
che tu abbia cuore, senza che tu sia capace di conservare il cuore che ti è stato dato, senza
cuore Dio non può far nulla. Essere se stessi è la risorsa più importante per frenare
l'invadenza del carcere, per salvaguardare la propria coscienza e allontanare il pericolo che il
carcere alimenta, lusingando la sperdutezza della memoria. È così, direttore, abbiamo
riconosciuto la Sua voce: l'uomo ha questa capacità di riconoscere la 'voce buonà che
chiama all'incontro decisivo. La voce è inconfondibile. Possiamo non risponderle e tapparci
l'animo. Ma è impossibile non riconoscerla. In tanti abbiamo risposto con il più forte grido di
dolore che si potesse emettere, perchè meglio fosse raccolto dal Cielo: abbiamo gridato e
ci siamo sentiti liberi. Abbiamo sentito dentro la nostra carne il dolore, abbiamo capito che
dentro il nostro dolore c'era anche la sofferenza degli altri e la sofferenza Sua. Per questo,
direttore, vogliamo gridare ancora più forte, vogliamo riuscire a gridare al posto di chi qua
dentro non ha la capacità o la forza di gridare nonostante soffra molto.
Vogliamo gridare il dolore di chi non vuole ascoltare e non sa rispondere alla 'voce buonà.
Soffrire per gli altri è una grande forma di amore e se gridiamo il nostro e il loro dolore,
liberiamo la nostra libertà. Giovedì 2 aprile 2015 la voce del Papa era stanca e addolorata
ma era 'la voce buonà, noi detenuti l'abbiamo riconosciuta subito. Lui era Cristo. Grazie,
Francesco», conclude Totò Cuffaro.
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