“Il mondo civile dovrebbe farsi
carico dell'odissea vissuta dai migranti che provano ad attraversare il mar
Mediterraneo per sfuggire a guerre, persecuzioni e miseria. Sinceramente nutro
qualche dubbio sulla presunta civiltà europea, mi sembra un atteggiamento di
superiorità assolutamente ingiustificato. Ieri è capitato con la Shoa, oggi con
i profughi morti in mare. L'Europa non può girarsi dall'altra parte e restare
nell'indifferenza generale”. Così Piero Terracina, sopravvissuto al campo di
sterminio di Auschwitz - Birkenau dove fu deportato appena quindicenne, ha
commentato, a margine di un incontro organizzato al liceo Meli di Palermo, le
ultime tragedie nel Canale di Sicilia. In un'aula magna dedicata al giudice
Paolo Borsellino e piena zeppa di studenti, un silenzio commosso e partecipato.
Da questa scuola 106 ragazzi sono appena tornati da un viaggio d'istruzione che
ha fatto tappa proprio al campo di Auschwitz- Birkenau. Pochi riescono a
trattenere le lacrime mentre Terracina racconta le prime vessazioni subite, come
le insensate leggi razziali promulgate dal fascismo che a tanti ebrei come lui
impedirono la prosecuzione degli studi a scuola “fino ad altri assurdi divieti –
spiega Terracina – come quello di fare un bagno in mare o recarci su qualunque
isola o costa, perchè considerati 'luoghi di importanza strategica' dai
fascisti”. Poi, appena 15enne, nel giorno di pasqua, il 7 aprile del 1944, il
blitz delle SS : “Erano passati sette mesi dall’occupazione tedesca. Eravamo
sopravvissuti al rastrellamento del ghetto di Roma, ci trovavamo rifugiati da
amici. A consegnarci ai nazisti era stato un ragazzo fascista. Allora i tedeschi
pagavano 5000 lire a prigioniero, noi eravamo in otto, per un totale di 40mila
lire, una bella cifra per l'epoca. Li scortò fino al portone, Facevano cosi,
segno che sapevano che non avremmo mai fatto ritorno”. Poi lo straziante viaggio
in treno verso i campi di sterminio “con l'acqua che era già terminata il primo
giorno, le urla disperate e i pianti dentro i carri al buio. Ricordo la fermata
alla stazione di Verona, di mattina. Fuori la stazione gremita, le persone
‘normali’ prese dalle loro faccende. Nessuno che abbia mosso un dito. Nessuno”.
Unico sopravvissuto degli otto componenti della propria famiglia, per anni
Terracina ha fatto i conti con gli incubi del passato e i sensi di colpa che lo
hanno tormentato per essere scampato alla morte. A partire da una bugia detta
alle selezioni al campo, su suggerimento di un altro prigioniero: “dichiarai di
avere 18 anni anziché 15. Accanto a noi file interminabili di prigionieri
ridotti in fumo e cenere. Quelle scintille erano i nostri morti, era un popolo
che bruciava - ha raccontato commosso agli studenti - ho visto i miei genitori
incamminarsi verso le camere a gas, mio padre si è avvicinato a me e ai miei
fratelli per sussurrarci solo 'Possono accadere cose terribili, ma non perdete
mai la dignità'. Come si fa a non perdere la dignità quando si ha fame. Dov’è la
dignità quando si guarda con occhi supplichevoli il proprio aguzzino perché
affondi un po’ di più il mestolo nella zuppa…avrei dovuto odiarlo il mio
aguzzino. Ma avevo 15 anni e a quell’età ti aggrappi alla vita con tutte le
forze. Avevo 15 anni e non volevo morire”. Terracina resistette quasi un anno
agli stenti e all'orrore di Auschwitz, alla progressiva disumanizzazione dei
prigionieri ridotti a “st
ück”, “pezzi”. Quando la liberazione al campo è
arrivata con le truppe sovietiche “nessuno di noi ha esultato. Eravamo
annichiliti, io pesavo 38 chili e arrivai in coma all'infermeria. Mi
costa ricordare l'orrore patito - aggiunge Terracina - ma è doveroso farlo per i
ragazzi, sono grato per l'affetto che mi dimostrano, mi ripaga della fatica che
provo a rivivere questi incubi. Siamo qui per fare memoria che è una cosa
diversa dal ricordo. Il ricordo morirà con me, mentre la memoria rimarrà in voi,
ragazzi”. Poi un monito: “Gli esecutori del massacro contro gli ebrei non erano
pazzi o barbari inferociti da mortificanti condizioni di vita - racconta -
appartenevano a una nazione che amava le arti e la letteratura, erano persone
che rientrando nelle loro case baciavano i propri figli e facevano recitare loro
le preghiere”. Per questo Terracina si dice “indignato e preoccupato dalle
crescenti ondate di razzismo, di chi oggi prova ancora a mistificare la realtà,
negando la Shoa o utilizzando strumentalmente i migranti, come prima ha fatto
con i Rom e i Sinti”.
Poi, accanto all'indifferenza di
tanti italiani che si sono girati dall'altra parte, il sopravvissuto ricorda il
coraggio di chi, invece, ha scelto subito da che parte stare, con coraggio: come
“l'eroismo dei napoletani, durante le quattro giornate dal 27 al 30 settembre
del 1943, primo atto di resistenza al Sud che valse alla città il conferimento
della medaglia d'oro al valor militare. Peccato sia una storia che si studi poco
– si rammarica – E poi non posso dimenticare chi mi ha salvato una seconda
volta, offrendomi un lavoro a 17 anni nonostante avessi detto chiaramente di non
sapere fare nulla. 'Non ti preoccupare, imparerai', mi fu detto. Fu un gesto di
grande solidarietà che mi salvò di nuovo”.
Infine un apprezzamento sentito
verso il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, che ha reso omaggio,
subito dopo il suo insediamento, alle vittime delle Fosse ardeatine. “È stato un
atto bellissimo, che ha dato un indirizzo preciso al suo magistero - conclude
Terracina - Con poche e giuste parole che hanno colpito nel segno, il Capo dello
Stato ha fatto un gesto importantissimo”.