Studente di Palermo: "Ho rotto con la mia famiglia mafiosa"

Società | 29 febbraio 2016
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"I miei parenti sono stati condannati per mafia. Non ho paura di dirlo qui, davanti a tutti, perché ho deciso di rompere con la mia famiglia, di invertire la rotta. Tutti devono deviare, tagliare questo filo perverso. Ma lo Stato non investe nella cultura, nella prevenzione, nella partecipazione. Perché?”. Questa la testimonianza di uno studente dell'ITC Marco Polo di Palermo, intervenuto stamane alla quinta Conferenza del progetto educativo antimafia 2015-2016, promosso dal Centro Pio La Torre. “Lo Stato se ne frega – ha continuato – non interviene davvero per togliere le radici di questo male. Lo Stato siamo noi, è vero, ma solo fino a un certo punto. Da soli non possiamo combattere nulla, solo le istituzioni possono intervenire per colpire nel cuore la mafia, recidendone le cause sociali e culturali”.

"La mafia è un anti-Stato e un'anti-religione. Ha un delirio di onnipotenza che la porta a creare un Dio a propria immagine e somiglianza. Al suo interno ha codici, riti, leggi, lavoro, riconoscimenti, procedure. Serve la grande forza spirituale della Chiesa e di chi crede per combattere una organizzazione così radicata e potente, prendendo da essa le distanze con forza", ha continuato   monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale. Intervendo alla conferenza del Progetto educativo antimafia del Centro Pio La Torre dal tema “L’antimafia della Chiesa – la sua evoluzione dal XX secolo ad oggi, da Sturzo a Papa Francesco", moderata dalla giornalista Bianca Stancanelli, il presule ha descritto il ruolo che la gerarchia ecclesiastica deve avere nel debellare il fenomeno mafioso.  "Dopo una fase di silenzio - continua Raspanti - che non ha giovato per nulla e non ha aiutato il popolo siciliano a maturare nella consapevolezza e a crescere nella democrazia e nella civiltà è arrivata la svolta con il cardinale Pappalardo.

Da quel momento in poi è diventata sempre più esplicita, netta, evidente la condanna della mafia e la scomunica per i mafiosi. La presa di posizione della Chiesa ha un peso enorme perché la mafia non è un semplice sistema di delinquenza, è un sistema culturale, familiare".
Il vescovo Raspanti nel 2103 emanò un decreto pastorale con il quale vietò i funerali religiosi ai condannati per mafia, dopo tre gradi di giudizio, che non avessero dimostrato ravvedimento.

"Dire che per i mafiosi la fede è solo strumentale è superficiale e approssimativo - spiega la sociologa dell'Università di Palermo Alessandra Dino, autrice di numerosi libri sul rapporto tra mafiosi e religione - ha anche, e soprattutto, una funzione di legittimazione. La Chiesa è sempre stata un'organizzazione sociale potente e ostentare un connubio significa godere per riflesso del suo status e del suo potere. A questo i mafiosi aggiungono una forza di legittimazione ed edulcorazione, si presentano come coloro che difendono la giustizia divina, aiutano il debole, intervengono in ciò che lo stato non garantisce".

"Esistono però - continua la Dino - altri livelli del rapporto mafioso-fede che non bisogna dimenticare, come ad esempio la dimensione intima. La fede distorta diventa per il criminale un elemento che lo aiuta ad affrontare la quotidianità, legittima il proprio potere pubblico e dà una dimensione identitaria forte".La videoconferenza è stata trasmessa in diretta streaming per le oltre cento scuole che fanno parte del Progetto educativo promosso dal Centro Pio La Torre. Il prossimo incontro si terrà il 30 marzo p.v. sul tema "Il ruolo della criminalità organizzata nei flussi migratori e nella tratta degli esseri umani".

 di Davide Mancuso

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