Spese militari in aumento nel mondo, sfiorano i 2 trilioni di dollari

Società | 16 giugno 2019
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Come puntualmente ogni anno, anche in quello in corso sono stati resi noti dall’autorevole Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma (SIPRI) i dati riguardanti le spese militari a livello mondiale nell’anno precedente, 2018. Hanno fatto registrare un aumento del 2,6 per cento rispetto al 2017 a conferma di una situazione internazionale sempre più conflittuale. Alla competizione geopolitica tra Stati Uniti e Russia si somma una crescente competizione globale tra Stati Uniti e Cina.

Le spese militari degli Usa aumentano del 4,6 per cento. E’ l’incremento più vistoso dal 2010. Le spese militari della Cina crescono del 5 per cento rispetto al 2017. Sebbene sia il dato più basso dal picco del 9,3 per cento del 2013 – in linea con il rallentamento economico rispetto al quinquennio precedente del gigante asiatico – rappresenta comunque un importante aumento che va ad aggiungersi a quello che è già il secondo bilancio militare al mondo dopo il budget statunitense.

Rispetto al 2017 aumentano le spese in Europa (1,4 per cento), Sudamerica (3,1 per cento) e Turchia (2,4 per cento). Un dato positivo: diminuiscono in Africa (-8,4 per cento), Russia (-3,5 per cento), Medio Oriente (-1,9 per cento). Ma sulla presunta diminuzione delle spese militari della Russia è il caso di soffermarsi più avanti.

Per questa ricognizione facciamo riferimento alla documentata analisi di un esperto del settore, Stefano Marras, dal titolo “Nuovo record storico per le spese militari mondiali” in “Difesa Online”, 8 maggio 2019.

Nel 2018 si è registrata una spesa complessiva di 1,8 trilioni di dollari (ricordiamo che un trilione equivale a mille miliardi), il 74 per cento dei quali nei primi dieci paesi della classifica degli stati che più investono in spese militari. La Nato con i suoi 29 membri contribuisce con il 53 per cento confermandosi ancora una volta l’alleanza militare più forte al mondo in termini di spesa. La classifica per singoli paesi invece vede come al solito gli Stati Uniti in testa con l’insuperabile spesa di 649 miliardi di dollari. Seguono Cina (250 miliardi), Arabia Saudita (67,6), India (66,5), Francia (63,8), Russia (61,4), Regno Unito (50), Germania (49,5), Giappone (46,6), Corea del Sud (43,1).

L’Italia? “Recupera” due posizioni rispetto al 2017 ma resta fuori dai primi dieci paesi con una spesa di 27,8 miliardi di dollari, alla pari con il Brasile. A causa soprattutto della crisi economica iniziata nel 2008 e che noi meno siamo stati capaci di lasciarci alle spalle rispetto ad altri paesi, l’Italia ha ridotto negli ultimi dieci anni il bilancio della difesa del 14 per cento. Oltre alla controversa questione dell’acquisto dei costosi cacciabombardieri F-35, l’Italia con una spesa militare corrispondente all’1,3 per cento del suo Pil fa parte dei paesi della Nato che non raggiungono quella che è stata definita la “soglia minima” del 2 per cento.

Al contrario, rispetto alla tendenza italiana colpisce nella graduatoria l’avanzata dei paesi asiatici: oltre al Giappone ed alla Corea del Sud anche l’India, spinta da una forte crescita economica e demografica, per la prima volta nella storia supera ogni paese europeo. Sorprende anche la Russia che riduce le spese militari perdendo così il tradizionale “podio” in classifica su cui, dopo gli Usa, salgono Cina ed Arabia Saudita. Ma è realmente così? Commenta Marras: “Come chiaramente dimostrato dalla rivista “Defence News” vi sono problematicità anche nel metodo di calcolo usato dall’Istituto svedese basato sulla conversione in dollari. Questo sistema infatti può trarre in inganno, come nel caso russo in cui le acquisizioni di materiale bellico avvengono perlopiù all’interno del territorio nazionale e quindi senza l’uso del dollaro statunitense. Da qui, secondo la rivista, la necessità di calcolare le spese militari a parità di potere di acquisto, il quale, nonostante certe problematiche, garantisce comunque un quadro più chiaro e veritiero”. In effetti, come è ampiamente intuibile, il bilancio della difesa russo sarebbe molto più sostanzioso dei 61,4 miliardi di dollari arrivando orientativamente all’importo di 150 – 180 miliardi di dollari. Quindi terzo al mondo, di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra potenza europea. D’altronde mal si concilia la relativamente bassa spesa militare calcolata dal SIPRI con l’ingente numero di uomini e mezzi, convenzionali e nucleari, che Mosca può schierare. “Oltre al discutibile metodo di calcolo – conclude Marras – un ulteriore fattore da considerare riguarda proprio come le spese militari vengono impiegate essendo certi paesi, come la Russia, più portati a investire in addestramento del personale e ricerca tecnologica rispetto ad altri paesi europei, spesso accusati di spendere male e in settori poco utili alle capacità combattive delle forze armate. Senza considerare le potenziali spese “non rese pubbliche” e che quindi non rientrano nei calcoli dell’Istituto di Stoccolma. Di conseguenza un bilancio della difesa più grande non si traduce necessariamente in una maggiore forza militare, ma andrebbe analizzato tenendo conto di tutti gli elementi elencati. Se dunque tale classifica non può darci un quadro del tutto chiaro dei rapporti di forza ci offre comunque un necessario punto di partenza a livello quantitativo per una successiva e più accurata analisi a livello qualitativo”.

I dati riportati offrono una buona panoramica per individuare i rapporti di forza tra nazioni e gruppi di nazioni. Vanno comunque letti sotto una prospettiva critica che prenda in considerazione altri fattori quali la demografia, il sistema economico e finanziario, l’industria bellica e manifatturiera, la coesione nazionale, la volontà e ambizione politica, la posizione geografica, il livello tecnologico e ingegneristico, il sistema delle alleanze, la disponibilità di risorse naturali e non ultimo la qualità e l’esperienza delle forze armate. L’Arabia Saudita, per esempio, nonostante sia il terzo paese in termini di spese militari (se lo può permettere grazie ai proventi accumulati da decenni con la vendita di petrolio) difficilmente potrebbe essere individuata come una delle principali potenze militari al mondo. Troppo dipendente dalle forniture militari estere (è il primo paese al mondo per importazioni belliche) che ne inficiano l’autonomia strategica e militare. A cui vanno aggiunte la poca esperienza in teatri di guerra e le dubbie capacità combattive impietosamente messe in luce anche nel conflitto in corso in Yemen in cui i sauditi sono parte i causa.

Non ci sorprendono più, invece, i progressi anche tecnologici del galoppante riarmo della Cina. In previsione di un futuro conflitto per la riconquista di Taiwan, le autorità cinesi avrebbero ordinato di accelerare i programmi di espansione degli arsenali militari per portare il paese su di un piano di parità con gli Usa. Come scrive Andrea Gaspardo (“Il programma delle portaerei cinesi” in “Difesa Online”, 13 maggio 2019) ”nel caso di un conflitto nel Mar Cinese meridionale, che finirebbe per opporre Pechino a Stati Uniti, Taiwan, Corea del Sud e Giappone, la marina cinese si troverebbe a rivestire un ruolo di primaria importanza sia in azioni offensive atte ad isolare e far capitolare Taiwan, sia in azioni difensive aventi lo scopo di proteggere la madrepatria dallo strapotere militare degli Stati uniti e dei loro alleati nell’estremo oriente asiatico”. Originariamente concepita come una grande forza di difesa costiera, la marina cinese ha iniziato una lenta ma inesorabile modernizzazione a partire dal 1987. Con lo scopo di schierare entro il 2049 la più grande e moderna forza di combattimento oceanica al mondo. Dopo l’acquisto negli anni ’80 e ’90 di una portaerei australiana e di due russe in disarmo, nel 2000 i cinesi acquistarono una portaerei ex sovietica rimasta non completata nei cantieri navali dell’Ucraina. La completarono dodici anni dopo, acquisendo così l’esperienza per costruirsi portaerei da sé. Un’altra è attualmente in costruzione. A queste a propulsione convenzionale altre se ne aggiungeranno a propulsione nucleare. Infatti pare che su espresso ordine del presidente Xi Jinping i cantieri navali cinesi abbiano accelerato il programma per la costruzione di ben quattro nuove portaerei di dimensioni maggiori ed a propulsione nucleare. C’è chi pronostica che - grazie agli sbalorditivi ritmi di lavoro dei cantieri cinesi - già entro il 2025 Pechino potrebbe schierare una forza complessiva di ben sette moderne ed imponenti portaerei.

Non finisce qui. Perché anche nei cieli oltre che nei mari la Cina non è più seconda a nessuno. Non solo non copia ma precede. Nelle scorse settimane ha testato nel deserto del Gobi il primo veicolo ipersonico al mondo, lo “Jageng 1”. Sviluppato dall’università dello Xiamen, il velivolo è in grado di volare cinque volte più veloce di un aereo supersonico, rendendosi così invulnerabile anche al più sofisticato dei sistemi di difesa contraerei. “Il successo dell’università, che si sviluppa nel solco del programma cinese ipersonico avviato nel 2009 – scrive Antonio Vecchio (“E’ cinese il primo velivolo ipersonico” in “Difesa online”, 13 maggio 2019) – sta nell’avere testato il prototipo in volo e nell’aver reso pubblico il progetto”. Spinto da un razzo lungo 9 metri e di tre tonnellate di peso, “Jageng 1” ha raggiunto l’altezza di 26 chilometri, ha effettuato manovre in ambiente ipersonico ed è rientrato alla base senza problemi. Il veicolo surclassa i competitor occidentali (come l’americano Boeing X-51) per la possibilità di passare dal volo supersonico a quello ipersonico con maggiore facilità e minori consumi. Il segreto del velivolo? Soprattutto gli avanzatissimi materiali di costruzione: una nuova lega – combinazione di metalli, ceramiche e materiali refrattari – che mantiene per un periodo prolungato le sue proprietà anche alla temperatura di tremila gradi piuttosto che ai millecinquecento gradi dei materiali finora adottati.

Gli americani sono in allarme per queste novità in grado di rivoluzionare il comparto aereo. La Cina ha condotto lo scorso anno in questo campo più test ipersonici di quanti ne abbiano condotti gli Usa in dieci anni. E così - mentre la Russia, da parte sua, entro l’anno schiererà il missile ipersonico “Avangard” in grado di volare ad una velocità pari a venti volte quella del suono - Washington per controbattere alla leadership cinese che si profila nel settore degli aerei ipersonici ha aumentato gli stanziamenti per sviluppo e test passando dagli 85 milioni di dollari del 2017 ai 257 del 2018.

Un ultimo dato, più che altro una curiosità. L’intero bilancio militare 2018 dell’Italia ammonta ad appena poco più del doppio di quanto gli Stati Uniti hanno speso per la costruzione della nuova portaerei “Gerald Ford”, varata nel 2013, consegnata alla Marina nel 2017 ed attualmente in fase di collaudo. La “Gerald Ford” è la prima unità di una classe di dieci portaerei di attacco di nuova concezione che sostituiranno nei prossimi decenni quelle attualmente in linea. Un colosso di 105.000 tonnellate di stazza. Lunga 337 metri e larga 78, con un equipaggio di 4.660 uomini e donne. E’ la portaerei - o meglio, più in generale, la nave da guerra - più grande e potente che sia mai stata costruita. Costata 13 miliardi di dollari. Finora.

Tutto questo sconvolgente ammontare di miliardi di dollari spesi in armi nel mondo – per le quali l’unica speranza che si può nutrire è che non scatenino mai finché sono in servizio i loro apocalittici effetti - mentre centinaia di milioni di esseri umani patiscono letteralmente la fame.

 di Pino Scorciapino

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