Sorrentino porta in sala la mano del dio Maradona

Cultura | 1 dicembre 2021
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Partecipato, “amarcordiano” (il riferimento al film di Fellini non ne riduce la valenza artistica e le citazioni cinefile si estendono a Rossellini e Sergio Leone) omaggio autobiografico a Napoli e ad alcuni dei suoi miti portanti: quello religioso dell’adorato San Gennaro e quello calcistico (anch’esso in odore di santità) del fenomeno Diego Armando Maradona, a cui si attribuiscono addirittura poteri divini in grado di sottrarre alla morte il giovane protagonista Fabietto (Filippo Scotti, esordiente insignito a Venezia con il premio Marcello Mastroianni), che proprio per assistere ad una partita di calcio, un fatidico fine settimana, non si trova nella casa di montagna con suoi genitori (Toni Servillo, Teresa Saponangelo), uccisi dal monossido di carbonio.

E’ stata la mano di Dio (2021) ultimo lavoro del pluripremiato regista, sceneggiatore e scrittore partenopeo Paolo Sorrentino mette in scena, ambientandola negli anni ottanta, la fondamentale tranche de vie d’un giovane napoletano, circondato da numerosa, gaudente e pittoresca famiglia, la sua amicizia con un contrabbandiere, la morte prematura dei genitori, l’attrazione “pattiana” per una prorompente e debordante zia (Luisa Ranieri) e l’inizio del sesso con un’attempata nobildonna (Betti Pedrazzi). Attraverso alcuni passi determinanti della sua educazione sentimentale, Sorrentino-Fabietto narra la nascita del suo amore per il cinema e la recitazione (più volte ricorrono nel corso del film scene teatrali a cui assiste il protagonista), dividendo in due parti (una prima scanzonata e divertente, con i chiassosi rendez vous mangerecci della famiglia ed una seconda tragica, ma foriera di decisioni definitive) questa franca autobiografia in cui con l’atto di denudare se stesso, spettacolarizzando il suo romanzo di formazione, Sorrentino tesse in un unicum estetico di allegria e dramma, gioia e dolore, le facce d’una stessa medaglia, ondeggiando tra realismo e fulminanti accensioni surreali (l’apparizione in auto di un carnale San Gennaro e più volte del “monachello”). 

 E sarà proprio il piccolo monaco misteriosamente riapparso nella sequenza finale ad impartire benedicente viatico al giovane che – ancora come Monaldo dei felliniani Vitelloni – in treno si allontana da Napoli verso la Roma dei suoi futuri successi artistici, eludendo i consigli del regista Antonio Capuano (incontrato in teatro) di non lasciare la città, risolvendo così risolutamente il dilemma morale di seguire o no le sue scelte fino a quel momento d’incerto adolescente, per andare incontro al suo destino. Un ritorno alle origini con cui tutti, prima o dopo, dobbiamo fare i conti. In concorso alla 78.a Mostra del Cinema di Venezia, il film ha vinto il Leone D’Argento e il Gran Premio della Giuria, consacrando Sorrentino come uno dei migliori registi italiani degli ultimi decenni ed uno dei pochissimi che gode di attenzione fuori dal nostro paese. Il film è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022, come miglior film internazionale. Incrociamo le dita e auguri al cinema italiano.



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