Shakespeare, Ionesco e Kafka chiudono la stagione teatrale etnea

Cultura | 6 maggio 2019
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Nicola Alberto Orofino, immaginifico regista teatrale catanese, prosegue la sua ascesa “autoriale” nel teatralissimo capoluogo etneo, sigillando la fine della copiosa stagione 2018-2019 (nella città addirittura strabocchevole) con due classici temporalmente lontanissimi tra loro per epoca e costume mentale e tuttavia ancora drammaticamente attualissimi. Al teatro del “Canovaccio”, piccolo ritrovo anche per cinefili, l’ardimentoso Orofino si cimenta con l’opera forse più estrema del grande Bardo, il diabolico e rabbrividente Riccardo III, come è d’uopo oramai, attualizzando la vicenda che – del tutto deprivata di scenografici sfondi ed allestita con costumi variopinti (superando i costosi gravami della tradizionale messa in scena) – rende l’agghiacciante ascesa al potere scarnificata d’ogni orpello, ancor più denunando “l’odore di bestia” esalato dagli insaziabili appetiti del deforme Plantageneto. Adattato, con ellittica perizia, dallo stesso Orofino, il ghignante e dinoccolato Riccardo (che accetta con gioia i selfie telefonici, mangia pop-corn davanti alla tv in compagnia dell’asservita e sbigottita corte) sciorina in agghiacciante progress “allegro” la sua terrificante giostra di delitti, assommando sulla sua persona il male assoluto che Shakespeare ha avuto il coraggio di rappresentare, strappando con violenza ogni velo ipocritamente protettivo. Alla fine lo stesso Riccardo, ormai sovrano, accenderà ai suoi morti i lumini del viatico, saturando la parete teatrale di sinistre fiammelle. 

Apprezzabile performance di tutto il team, alcuni impegnati in ruoli diversi, Daniele Bruno (efficacissimo Riccardo III)Raffaella Esposito (Re Edoardo, la Regina Margherita e il sindaco di Londra),  Lucia Portale (la Regina Elisabetta, Lord Hastings), Roberta Amato (Lady Anna); Vincenzo Ricca (Regina Margherita e Duca di Buckingham), Carmelo Incardona (il duca di Clarence) e Alessandra Pandolfini (Edoardo); costumi Rosy Bellomia; Luci Simone Raimondo. Saltando centinaia d’anni lo stesso Orofino – spericolando efficacemente con apocrife intromissioni “personali” su un testo non molto rappresentato del grande Eugene Ionesco (dio padre del teatro dell’assurdo) – ha messo in scena al Piccolo Teatro di Catania Delirio (con evanescenti riferimenti a La cantatrice calva, capolavoro del drammaturgo rumeno) le farneticazioni linguistiche d’una coppia esausta, attaccata da improvvise e misteriose irruzioni esterne (la guerra), metafora dell’illogicità contemporanea camuffata da apparente razionalità, sotto la quale cova il nulla esistenziale, l’incomunicabilità, l’estraneità di due poveri esseri umani, che continuamente ferendosi con strazianti e grotteschi dialoghi incarnano la clownesca, irrazionale, visione dell’esistenza nella quale tutti siamo inconsapevolmente immersi.

Interpreti: Alice Ferlito e Francesco Bernava, insoddisfatti compagni di vita che hanno fatto del verso di Ovidio (“Nec sine te, nec tecum vivere possum”) l’insensata e allucinante weltanschauug nella quale continuare a dimenarsi inutilmente.

 L’attore-regista catanese Nicola Costa, forse per una sorta di “affinità elettiva” con l’autore, sperimenta con successo le sue capacità di dirigere un poker di quattro attrici portando all’escandescenza un non facile testo di Fabrizio Romagnoli, eclettico personaggio dello spettacolo (anch’egli attore, autore, regista teatrale…), allestendo sul palco della “Sala Chaplin” di Catania (nato in una zona della città in rapida bonifica) Una lunga attesa, incalzante testo contemporaneo che rivela, schizzandola con tratti efficaci, la “tranche de vie” di quattro donne urlanti, litigiose, spocchiose o dimesse, impegnate in un’improbabile gioco di carte. Ognuna, staccandosi di volta in volta dalla tavola, ritta davanti agli spettatori racconta, come in tranche, la propria tragedia. 

Solo alla fine la voce fuori campo rivelerà il mistero della loro vita, svelando così i motivi della ritualità coatta, d’un’infinita coazione a ripetere, nella quale sono costrette, impossibilitate a fuggire. Costrizione in uno spazio angusto che assume la valenza d’una universale dimensione esistenziale. Ottimo il quartetto delle interpreti: Elisa Franco, Carmela Sanfilippo, Alice Sgroi e Viviana Toscano.

Ancora in uno spazio molto angusto, ma reso funzionale dalla costruzione di una gabbia metallica dentro la quale si muovono cinque attori, nella sala “Giuseppe Di Martino” di Catania (gestita dal regista Elio Gimbo, che con la sua regia ha diretto Il processo), Gianni Scuto (storica firma della regia teatrale catanese), “ingloba” la Lettera al padre di Franz Kafka, qui resa in forma di sussultante pièce teatrale, che svela impietosamente il problematico rapporto dello scrittore di Praga con la dispotica, autoritaria e inflessibile figura del padre, impastato di severi metodi educativi prussiani. 

Un rapporto di sottomissione, di odio, di disprezzo misto ad ammirazione, d’incessante sofferenza, aggravato da un incancellabile complesso di colpa, che ha profondamente segnato tutta la produzione letteraria di quest’autore chiave della letteratura novecentesca (qui accennata), affrontato da Scuto con funzionale adattamento scenico e fine scavo psicologico a partire dalla metafora della “gabbia” (in cui tutti siamo rinchiusi) e dalle continue, pietose, ingerenze della madre e della sorella. 

Un Kafka spietatamente svelato nelle sue più intime recondità, umiliato, mortificato, incessantemente respinto e condizionato dal padre perfino nella scelta dei rapporti sentimentali (che si riveleranno fallimentari), egli stesso da identificare in quell’enorme, repellente, scarafaggio de “La metamorfosi” la cui convivenza in famiglia è resa impossibile dalla mostruosa, inaccettabile, diversità così rappresentata dalla sua fervida, inarrestabile, fantasia. Adattato dallo stesso Scuto per “Fabbricateatro” (a conclusione del progetto “Caso K”), “Lettera al padre” ha visto in scena Domenico Maugeri, Barbara Cracchiolo, Alessandro Chiaramonte, Alessandro Gambino ed Elisa Marchese, tutti perfettamente adattati ai ruoli dei familiari dell’infelice scrittore.

 di Franco La Magna

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