Shakespeare a Catania 400 anni dopo la morte

Cultura | 16 aprile 2019
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A circa cinquecento anni dalla nascita il “grande Bardo” continua a saturare teatri lirici e di prosa, affermando con l’immortalità delle sue storie l’inveterato bisogno degli esseri umani della creazione artistica e dell’autorappresentazione, irrinunciabile fonte di diletto e di conoscenza di se stessi e del mondo. Al poeta e drammaturgo inglese William Shakespeare (ma ormai, secondo una tesi stravagante, c’è chi giura essere nato a Messina), in occasione del quattrocentesimo della morte (1616), Catania ha tributato – in modo del tutto dissimile e come sempre senza alcun coordinamento (secolare italico limite) – ben tre spettacoli, due di prosa, e un balletto andati in scena sui palcoscenici etnei in queste prime settimane d’un aprile insolitamente invernale.

 Divenuta da sempre uno dei grandi classici della storia della danza l’infelice vicenda di Romeo e Giulietta, messa in musica dal russo Sergej Prokof’ve, è rivissuta in nuova versione  firmata da Libor Vaculík (proposta dal teatro J.K. Tyl di Plzeň, cittadina ceca della Boemia occidentale) offrendo al pubblico catanese del Teatro Massimo Bellini una messa in scena “tradizionale”, che evitando mirabolanti invenzioni registiche (ormai divenute, queste sì, davvero retorico demodé) ha riaffermato prepotentemente la perizia di questo incantevole corpo di ballo, già apprezzassimo dagli stessi aficionados del Bellini, dove tre anni fa si è esibito in una indimenticabile edizione di “Spartacus” di Aram Chačaturjan (Romeo Václav Lamparter-Gaëtan Pires;Giulietta  Anna Smcová, davvero eccellente  e  Carolina Cortesi; direttore d’orchestra Claudia Patanè); notevoli coreografia, scene e costumi. E proprio spericolando su i due amanti di Verona, Francesca Ferro (Direttrice artistica di “Teatro Mobile”) forse ispirandosi alle suggestioni del celeberrimo musical West Side Story (colonna sonora di Leonard Bernstein) o, verosimilmente, a quelle più prosaiche del capoluogo etneo, dirige un folto team di attori più o meno noti e adatta in stretto vernacolo catanese Romeo Q Giulietta (dove la “Q” dell’italico alfabeto va intesa qui come “ccu”, ossia “con”) una discutibile traduzione attualizzata di Alessio Patti che (volutamente?) sottrae al cinquecentesco Bardo ogni afflato poetico, insistendo nella pur realistica ed estrema volgarità di due avverse fazioni criminali, cartina di tornasole d’una città (della quale non risulta arduo immaginare la collocazione geografica) dove la legge dominante è soltanto quella dell’arbitrio e della violenza e dalla quale è bandito ogni sentimento d’amore. 

Rischia grosso, ma vince la scommessa, il volenteroso Valerio Santi, attore-regista (qui anche musicista e scenografo) anch’egli planando, per quanto con maggiore rispetto, sul palcoscenico del teatro “L’istrione” con il “problematico” testo shakespiriano Misura per misura (1603), eterno melange di tragico e comico, denuncia d’un potere prevaricatore e falsamente austero, alla fine smascherato e punito proprio dal potere momentaneamente surrogato che così ne ha voluto verificare l’inesistente probità. L’antinaturalismo dichiarato di Santi, avvalorato dal trucco espressionistico e dall’abbigliamento “dark” dei personaggi, rende con efficacia l’atemporalità della vicenda all’interno d’una costruzione scenografica graticolata, “metafora – scrive il regista-attore nelle note di regia – di un sistema prigioniero del potere e della corruzione”. Bella prova dell’intero cast. 

Cresciuta artisticamente nel brodo placentare d’una inarrestabile Catania teatrale, Egle Doria (una delle “autoattrici” più note ed apprezzate della numerosa scuderia etnea) ha coraggiosamente trasformato la sua vita in rappresentazione artistica (mirabile osmosi Arte-Vita) ed aiutata dalla “complice” regia di Nicola Alberto Orofino, sciorina in pubblico Nove, diario d’una esistenza non conformista narrata in un serrato monologo, interpretando più donne della stessa famiglia (nonna, madre, zie, figlia). Ne emerge un racconto scheggiato, caotico, da cui, tuttavia, è possibile seguire il fil rouge d’una “tranche de vie” collettiva, ma soprattutto la scelta controcorrente della fecondazione eterologa per dare al nascituro “due madri”. Recitato in chiusura dell’apprezzata e seguita stagione di “Palco Off”, diretto da Francesca Vitale, la vicenda individuale della Doria assume così una valenza “sociale”, di forte denuncia d’una condizione femminile ancora difficile da accettare, per dare (si spera) a chi ancora ne soffre la necessaria forza reattiva.   

 di Franco La Magna

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