Shakespeare a Catania, 35 personaggi condensati in un teatro

Cultura | 14 dicembre 2019
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Trentacinque personaggi! Un vero e proprio battaglione attoriale, impossibile da portare in scena persino al tempo del grande Bardo. Oggi poi, con le note scarselle (soprattutto economiche) che avviluppano il teatro, un’utopia irrealizzabile. Dunque cosa fare di questo “irrappresentabile” Enric V se proprio non si vuole rinunciare al monumentale dramma storico in cinque atti della tetralogia “enrieide” sul sovrano britannico che conquistò la Francia? Con un’operazione che spericola tra azzardo, incoscienza e cimento, il tandem Cristina Gennaro e Davide Migliorisi (quest’ultimo anche regista), autobattezzatisi “adattatori in varietà”, hanno dato vita al fluviale lavoro del Bardo nel piccolo palcoscenico del Teatro del Canovaccio di Catania (ormai luogo fetish delle più ardite sperimentazioni), sfruttando al meglio gli stessi consigli dell’autore, il quale (ben consapevole delle enormi difficoltà del testo) impartisce ai temerari che vi s’accostano vere e proprie lezioni di teatro. Con un incipit che invita gli spettatori a correre con l’immaginazione su enormi distese percorse dal clangore delle armi e dal frenetico galoppo dei cavalli, i due attori dispiegano la vicenda del sovrano scapicollandosi (anche “en travesti”) in una recitazione concitata, frenetica e trascinante, aiutati dall’uso del “cunto” vernacolare, adattando l’opera secentesca all’idiomatica declamazione della tradizione isolana ottocentesca. Operazione oltremodo meritoria e originale, da seguire con attenzione che, dopo lo shock iniziale e la necessaria fosforizzazione cerebrale, introduce lo spettatore nella guerresca vicenda del regale conquistatore. Musiche Peppe Arezzo; scena Giuseppe Busacca; costumi Lea Schembari; luci e fonica Giorgio Baglieri; regia Davide Migliorisi.

Sorprendentemente attuale, sconvolgente per la bigotta morale del tempo, precorritrice del ruolo non subalterno della donna, dunque anticipatrice delle rivendicazioni femministe che sarebbero clamorosamente esplose molti decenni dopo, Casa di bambola scritta nel 1879 dal sommo drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (che Pirandello considerava il creatore del Teatro Moderno, ma altresì il maggior autore dopo Shakespeare), da molti anni assente da Catania, ha trovato spazio nel rinato palcoscenico del Must-Musco Teatro, per l’agile regia di Sebastiano Tringali, che molto ha lavorato di cesello per ridurre il lavoro del norvegese ad una più breve e lineare rappresentazione scenica. La vicenda di Nora Helmer che - dissimulando s’indebita, falsificando la firma del padre, con losco individuo per permettere all’adorato marito di curarsi, ma da questo poi incompresa quando la vicenda viene a galla in termini ricattatori, per poi sgonfiarsi - si erge improvvisamente alla fine del dramma in tutta la sua imprevedibile conclusione, divenendo metafora e paradigma d’una condizione femminile di “donne-bambole” contro cui si compie l’estremo, imperdonabile, peccato del mancato riconoscimento della “personalità umana”. La liberazione di Nora da “donna-bambola” (che abbandona consorte e figli per intraprendere il travagliato e solitario percorso dell’emancipazione) costrinse addirittura Ibsen a modificare il finale, perché l’allora protagonista femminile si rifiutò di rappresentare il personaggio d’una madre ritenuta “snaturata”. Misurato ed efficace l’intero team attoriale: Davide Sbrogiò (Torvald Helmer), Valeria Contadino (Nora Helmer), Sebastiano Tringali (dottor Rank), Barbara Gallo (signora Linde), Riccardo Tarci (Krogstad). Musiche Gaetano Mazzocchetti; scene Susanna Messina; costumi sorelle Rinaldi; regia Sebastiano Tringali.

 di Franco La Magna

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